La sinfonia del pendolo

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Era da sempre affascinato dai suoni intermittenti. Di qualunque natura fossero. Dapprima quelli della macchina da scrivere.

Era ancora un bambino, avrà avuto forse tre o quattro anni, quando si intrufolava nello studio dove il padre, il nerboruto signor G., trascorreva intere ore a scrivere: articoli di cronaca, collaborazioni a riviste letterarie, saggi filosofici, recensioni a rappresentazioni teatrali, critiche musicali, romanzi…insomma, una fervida mente intenta ad un instancabile lavoro intellettuale.

Il piccolo Ludovico, appena il momento era propizio, eludeva il severo controllo della balia e sgattaiolava, con passo felino, in quella stanza, il cui accesso era pressoché proibito, come fosse il sancta sanctorum della cultura. Tanti oggetti avrebbero potuto attrarre la sua attenzione: scaffali chilometrici stipati di libri di ogni foggia, fattura e dimensione, poltrone broccate dal vago sapore nobiliare, l’elegante boiserie lungo le pareti. E poi l’odore del legno, che impregnava l’aria, trasmetteva calore e invitava a godere di quell’atmosfera sospesa, fatta di pensiero, di fumo, di silenzio, quasi religioso, che chiamava alla riflessione.

Eppure, era la scrivania ad attirarlo, con richiamo quasi magnetico. Non perché il mobile solleticasse qualche particolare fantasia. Era solo un’imponente e piuttosto austera cattedra in noce massiccio, poco elegante e abbondantemente segnata dai tarli.

Ma era la magia che, quotidianamente, si materializzava sul suo piano a risvegliare uno strano istinto ed una curiosità irreprimibile: le dita del signor G. danzavano sui tasti della macchina da scrivere e il ticchettio dei caratteri sul rullo e sul foglio fendeva il silenzio pesante della stanza. Ludovico non sapeva cosa stesse scrivendo il padre. Ma adorava quel suono. E assaporava, inconsciamente, l’intervallo tra una battuta e l’altra. Non riuscivano a distrarlo nemmeno le urla concitate della balia che lo richiamavano all’ordine. Forse era rassicurato dalla presenza del padre che, nonostante l’aspetto rude e distaccato, con malsimulata indifferenza gradiva la presenza del figlio e più volte lo aveva difeso e complicemente nascosto da chi lo voleva segregato nella stanza dei giochi, dove non avrebbe disturbato il lavoro del signor G.

Con il trascorrere degli anni le visite allo studio paterno erano sempre più frequenti e meno occulte. E al posto del cantuccio sotto la scrivania c’erano lunghe esplorazioni lungo gli scaffali della biblioteca. Non tutti, solo quelli dedicati alle enciclopedie ed alle edizioni antiche dei filosofi greci. Chiaramente Ludovico non era interessato al contenuto dei libri, non era attratto neppure dai colori sgargianti delle copertine. Ma quello era il posto più vicino alla scrivania e da lì riusciva ad ascoltare nitidamente il suono della macchina da scrivere, sempre più flebile ed intermittente con il passare del tempo.

Un giorno avvenne qualcosa che cambió la sua vita. Il padre si era repentinamente alzato dalla sedia per accomodarsi sulla poltrona di fronte alla finestra e aveva avviato il grammofono. La Quinta di Beethoven. “Si chiamava come te, figlio… chissà che tu non ti riveli un prodigio come lui”. Ludovico si era accostato al misterioso apparecchio, incuriosito e al tempo stesso intimorito. Ecco la magia. Il padre, addormentatosi, non si era accorto che la puntina aveva raggiunto la fine della sua corsa e l’unico suono riprodotto era il regolare crepitio metallico proveniente dalla campana in ottone. Ludovico era estasiato, praticamente ipnotizzato. Un silenzio, solo leggermente accompagnato da un fruscio di fondo, prendeva improvvisamente vita per poi riempire l’aria. Il bambino osservava, cercava di capire. Non il meccanismo, non la causa del rumore, quelli erano chiari. Era il mistero della profondità di quel silenzio a stuzzicarlo, di quel vuoto di suono che, allo stesso tempo, era così indefinitamente pieno…

Il signor G., al risveglio, non riusciva a distogliere gli occhi dal figlio, che sembrava diventare un tutt’uno col grammofono. Voleva darsi una spiegazione plausibile per un comportamento così inusuale, ma non la trovava. Poi, l’illuminazione, o almeno così sembrava. Ludovico, Beethoven, la sinfonia: il bambino doveva essere stato rapito dalla musica, che doveva aver risvegliato qualche talento naturale fino ad allora sopito. Il padre musicofilo non ci poteva credere.

Il primo passo, già l’indomani, era stato portare il piccolo da un suo vecchio amico, che si era ritirato da un’intensa attività musicale, dopo aver calcato i più importanti teatri nazionali accompagnando, col pianoforte, i grandi cantanti lirici. Il signor G. era giunto col figlio nel bel mezzo di una lezione. Al vedere l’amico, il Maestro aveva invitato l’allievo a suonare un pezzo d’effetto, pieno d’armonie, di bassi, di arpeggi e virtuosismi. Ma il piglio del didatta aveva preso il sopravvento e così, quasi mossa da un’energia propria, l’asta del metronomo cominciò a danzare sulla coda del pianoforte. Neanche a farlo apposta, Ludovico era corso vicino alla tastiera. Non tanto per la musica, s’intende, quanto per la suggestione magnetica di quello strumento mai visto prima, maniacalmente preciso nel suo alternarsi di silenzio e rintocco. Ancora una volta, l’atteggiamento del bambino fu male interpretato. Il suo rimanere quasi inebedito, immobile e concentrato vicino al piano fu subito letto come se fosse stato rapito dall’estasi della musica. Non c’erano dubbi, per il Maestro: un fanciullo così giovane non avrebbe reagito così se non avesse avuto dentro di sé il sacro fuoco dell’arte. Quelle parole raggiunsero come una spada il cuore ambizioso del signor G., che subito si accordò con l’amico per un programma di studio particolarmente intensivo: bisognava a tutti i costi sviluppare le doti di Ludovico e tirar fuori l’enfant prodige che era in lui.

Purtroppo, però, le aspettative non trovarono conforto nella realtà. Il giovane, pur dimostrando indubbie qualità, non aveva il cipiglio tipico di un genio della tastiera, men che meno l’acribia, la naturalezza e la facilità di chi aveva ricevuto un dono divino. Beninteso, le sue doti erano superiori alla media, il fraseggio era molto piacevole e la musicalità innata. Non erano tanto mani e dita a far dannare il povero Maestro, quanto l’atteggiamento piuttosto atipico e quasi disinteressato di Ludovico: nelle sue esecuzioni le pause duravano in modo spropositato, sembrava che il ragazzo volesse esprimere maggiore forza e vitalità nei silenzi piuttosto che nell’armonia e nei virtuosismi delle note. E questo non era dovuto a impreparazione tecnica o incertezza musicale, sembrava piuttosto la cifra stilistica del ragazzo. Ciò che al Maestro parevano attese interminabili, per Ludovico erano espedienti per incorniciare gli accordi e dare loro un vigore più forte rispetto a quanto scritto sulla partitura. E in quelle pause, avvertiva, come un compagno di banco, rassicurante e fedele, il ticchettio del metronomo, che invitava alla regolarità, alla calma e al silenzio.

La severità del Maestro e l’apprensione del padre erano riuscite a convertire un approccio un po’ naif alla musica in uno più canonico, sul filo della tradizione di chi si preparava ad intraprendere la carriera di concertista. Ma l’inquietudine di Ludovico non era venuta meno, si era soltanto mimetizzata per non portare allo sfinimento le energie psichiche del suo Maestro e l’affettuosa pazienza del padre. Il giovane aveva compreso che non trovava soddisfazione nell’eseguire i capolavori scritti da altri. Aveva qualcosa da dire, una voce gridava dentro la sua anima e voleva uscire. Forse per quello si sentiva così attratto dalle pause: in quei frangenti di vuoto musicale gli sembrava di poter percepire il battito del suo cuore fondersi con le vibrazioni delle note che ancora si diffondevano nell’aria.

Sull’onda dell’entusiasmo, si era gettato anima e corpo nello studio della composizione. L’arte che aveva inconsapevolmente respirato per tanto tempo nella casa paterna sembrava ora fluire in lui in modo così naturale, le idee si proponevano impetuose ed improvvise nella sua mente. Però mancava sempre qualcosa. Non riusciva a trovare la quadra, i pentagrammi riempiti sulla carta non gli sembravano all’altezza del sentire che aveva dentro. Eppure non c’era imperizia, non c’erano errori e neppure monotonia. I riscontri di maestri e colleghi erano positivi ed entusiasti: non a caso era stato caldamente invitato a partecipare ad un concorso di composizione ed in Accademia già si vociferava che il primo premio, ossia l’esecuzione pubblica nel teatro cittadino, sarebbe spettato a lui, per la sensibilità, la naturalezza e la fantasiosa freschezza dei suoi pezzi.

Ma Ludovico non la pensava così, anzi. Si sentiva inadeguato e non si riteneva all’altezza delle capacità che gli altri gli riconoscevano. E l’iscrizione al concorso era coincisa con una profonda crisi, artistica e personale. Per la prima volta in vita sua aveva paura, aveva paura a far musica, a sedersi al pianoforte, a giocare con le note come se fossero formiche sul bagnasciuga di un lago. E non sorrideva più, non riconosceva neppure se stesso.

Soprattutto, non aveva idee: dentro di sé soltanto il vuoto. Come fare? La scadenza per la consegna del brano per il concorso era imminente e Ludovico non poteva permettersi di presentarsi davanti alla Commissione solo con un foglio stropicciato, vergato da stelline, greche e disegnini osceni. Doveva fare qualcosa, doveva sorprendere ed agguantare l’idea giusta il prima possibile. Ma attorno aveva solo il silenzio della sua camera e quel silenzio, da sempre amico fraterno, lo opprimeva e lo soffocava. Aprì la finestra e udì gli uccelli far festa. Eureka! Vivaldi, Primavera, Primo Movimento, Allegro. Se l’ispirazione non poteva venire da dentro, sarebbe venuta da fuori. Come Vivaldi aveva tradotto in musica i suoni delle stagioni, lui avrebbe cercato il suo soggetto tra le nascoste melodie del mondo.

La via era chiara, doveva solo tracciarla e seguirla. Già, facile a dirsi, ma non a farsi. La campagna non lo attirava (non aveva mai avuto uno spirito bucolico), la vita cittadina non offriva spunti. Era disperato. Ma sul ponte della ferrovia, d’un tratto, si risvegliò dalla sua inerte apatia: il ritmato incedere del treno sulle rotaie, cadenzato tra rumore e silenzio, lo richiamò alla vita e gli dettò cosa cercare, cosa scrivere, cosa suonare. Aveva capito, d’improvviso, chi era, ricordava come e dove tutto era cominciato: la macchina da scrivere, il grammofono, il metronomo e…il treno.

Si recò subito nello studio del padre e lo trovò uguale ad un tempo, poi corse dal vecchio Maestro di piano e quindi si chiuse in camera. Forse fu un segno del destino, ma non appena si lasciò la porta alle spalle, il pendolo, che oscillava sopra il suo letto, rintoccò le undici, con suoni lenti e regolari, prima di riprendere la sua corsa scandita e ossessivamente ripetitiva. Ludovico considerò quell’evento come uno sprone ed un buon augurio. Sorrise, quindi si tuffò nelle trentasette ore più corte e più lunghe della sua vita, sicuramente le più intense, emozionanti e divertenti. Aveva fatto un tuffo nel passato per riemergere nel presente, per capire chi era e chi sarebbe stato.

Aveva consegnato il plico all’ultimo minuto. Non aveva la minima idea di come sarebbe andata. Non gli importava neppure. Sapeva solo che si era divertito come un matto, e questo gli bastava. Anche l’aspetto trasandato donatogli dalla reclusione forzata per la composizione non gli dispiaceva affatto, si era innamorato della sua stravaganza e la chioma arruffata gli ricordava tanto quella dell’altro Ludwig, quello bravo, cui il padre lo aveva accostato anni prima. Doveva solo aspettare l’esito della selezione e sperare di leggere il suo nome sul programma di sala.

Ora toccava a lui. Era arrivato in auditorium in anticipo. Voleva stare un po’ solo a respirare l’aria del teatro finché era ancora tutto suo, prima della première. Il palco era buio, solo una leggera luce soffusa proveniva dal retro del sipario abbassato. L’atmosfera era strana, l’emozione palpabile. Eppure Ludovico si sentiva a casa: l’incedere cadenzato sulle tavole del palco lo aveva messo a suo agio e ora era seduto allo sgabello del pianoforte, con la testa tra le mani. Ebbe un dejà-vu. Il palco aveva lo stesso odore della boiserie dello studio del padre. Il passato si mescolò al presente, in una commistione di ricordo e realtà. Vedeva il piano e sentiva i tasti della macchina da scrivere del padre, percepiva il suo respiro cadenzato e immaginava l’asta del metronomo del suo Maestro, osservava lo spartito sul leggio e udiva la Quinta di Beethoven suonata dal grammofono nello studio. Tutto aveva compimento in quell’istante. E nel cuore eseguiva per sé la sua composizione, un dono che voleva godersi interamente prima di condividerlo col mondo.

Aveva compreso che i silenzi, che tanto lo avevano affascinato da sempre, lo avevano guidato fino a quel momento. Ed erano stati preziosi perché si erano rivelati lo specchio della sua anima, vibravano delle sue emozioni, erano il tramite tra la sua sensibilità e l’universo. Lo aveva capito mentre componeva, quando il silenzio della stanza si colorava di risa, di fantasie, di sapori, di giochi e di vita, la sua. Lo aveva capito, il silenzio viveva in lui e lui nel silenzio, e quel connubio era proficuo e quel vuoto di suoni non si esauriva nel nulla, ma si riempiva della pienezza dell’esistenza.

La sua mente ed il suo cuore avevano appena suonato l’ultima nota della sua “Sinfonia del pendolo”. Ed ecco un suono intermittente attirò la sua attenzione: l’ingranaggio del sipario. Pochi istanti, un po’ di polvere e una luce diretta nei suoi occhi. Poi solo silenzio. Un silenzio pronto ad esplodere in un fragoroso applauso.