Marta si è occupata a lungo dell’arredamento del suo appartamento in centro: si è documentata, ha valutato con attenzione l’acquisto di ogni mobile, di ogni vaso, di ogni mensola. L’ha comprato ormai da dieci anni, è stata la sua vittoria, la sua scommessa vinta contro ogni previsione; ha deciso di comprarlo quando una mattina si è guardata allo specchio e ha visto finalmente una donna, non una bambina, una donna adulta, elegante nel suo completo da ufficio, pulita. Sì, pulita, perché per molto tempo si è sentita sporca, come se una patina di fumo le si fosse incollata addosso, su ogni parte del corpo, e fosse impossibile eliminarla. A quindici anni il suo corpo le chiedeva con forza di eliminare quella patina, di ripulirlo, e lei aveva pensato che rendere il suo corpo più piccolo, sempre più piccolo le avrebbe permesso di togliere ogni sporco, le avrebbe permesso di sentire la sua pelle pulita, finalmente. Era dimagrita, tanto, ma non si era sentita più pulita. E poi era arrivato l’ospedale, le cure, la disperazione dei genitori, la terapia; per anni aveva raccontato di sé a una sconosciuta, le aveva raccontato molte cose, tanti dettagli, tanti episodi, ma non aveva mai parlato dello sporco, di quella patina che la ricopriva.
Finalmente davanti allo specchio, una mattina, si era vista pulita e aveva deciso di comprare la sua casa, che sarebbe stata bella, luminosa e pulita. Aveva scelto colori chiari per tutte le camere, niente che le ricordasse la stanza cupa dai mobili massicci in cui aveva preso lezioni di piano.
E il suo appartamento ora è perfetto. Marta è seduta sul divano del suo salotto: ci sono dei girasoli sul tavolo, i libri sono sistemati sugli scaffali in perfetto ordine alfabetico. Potrebbe essere felice, potrebbe se qualcuno le regalasse un po’ di silenzio. Vorrebbe tanto avere un po’ di silenzio, godersi la pace di un pomeriggio silenzioso nel suo appartamento luminoso e pulito. Ma non può. Il silenzio non è tollerabile per lei, non può averlo. Non appena il silenzio la circonda, Marta sente nella sua mente la solita serie di rumori: i suoi passi sui sanpietrini della strada che scendeva dalla piazza (la madre le faceva indossare sempre delle scarpette di vernice nera per le lezioni); e poi il cigolio di un pesante portone, un enorme, vecchio portone che si apriva su un atrio freddo e umido. E poi Chopin, durava così tanto quella sonata. E allora il suo appartamento ha sempre un rumore di sottofondo: un cd, la televisione, il ronzio di un frullatore, la lavatrice, c’è sempre qualcosa che produce un rumore e la difende dai ricordi. Anche oggi, prendendo il suo caffè, ha davanti la tv accesa ad alto volume. Ha ricevuto una telefonata poco fa, una cugina che non vede da molto tempo le ha comunicato la morte della nonna. Marta se lo aspettava, la nonna non stava bene e le ha fatto promettere di andare al suo funerale. Non le è particolarmente affezionata, non prova dispiacere, non sta pensando a questo, sul suo divano. Sta pensando che tornerà in quel posto.
La stazione è quasi deserta alle 5:30; Marta ha un biglietto per tornare in paese e partecipare al funerale. Ha calcolato tutto perfettamente: arriverà alle quindici, giusto in tempo per recarsi in chiesa, la funzione durerà un’ora, poi si farà accompagnare in un albergo sul mare, non resterà nella casa di famiglia, né si farà ospitare da parenti che non vede da anni. Domani ripartirà alla volta della sua solita vita. Tutto programmato nel dettaglio.
Prende posto nella sua carrozza, non è affollata, Marta ha un romanzo da iniziare e i suoi auricolari; ascolterà musica per tutto il viaggio.
Tutto come previsto: il treno arriva puntuale, Marta scende nella stazione della sua infanzia, l’infanzia in paese, sulla collina; la scuola con la maestra bionda, regina adorata dalle sue sette piccole alunne. Sette bambine: era questa la sua classe alle elementari. La stazione è arroventata dal sole del pomeriggio, piante riarse nelle aiuole, le belle di notte chiuse e con le foglie assetate, i grilli in sottofondo. Marta si guarda intorno e si rivede: la bambina felice, le amichette; e poi le maledette lezioni di piano, il puzzo umido di quell’atrio, e poi lo sporco, arrivato come una nebbiolina mortale che ha avvolto la sua vita. Si rivede sdraiata sul pavimento del terrazzo di quella che era la sua casa, un pavimento rovente, su cui le piaceva rimanere accucciata a godersi il silenzio del pomeriggio estivo, quando tutti dormivano, le strade erano deserte e poteva sprofondare nei suoi sogni. Questo accadeva prima. Poi non era più salita in terrazza e uccideva il silenzio del pomeriggio con la musica a tutto volume nelle cuffie.
Scesa dal treno, cerca un taxi, si farà accompagnare in paese. Giusto in tempo per andare in chiesa.
Il taxi non può arrivare davanti alla chiesa, la strada è stretta è bisogna lasciare posto al carro funebre. Marta scende e si avvia. I suoi tacchi fanno rumore sui sanpietrini. Tic tic tic. C’è brusio intorno, Marta sente le voci, e sa che la riguardano, se girasse lo sguardo, vedrebbe tanti occhi fissi su di lei, ma non lo fa, tiene alta la testa e guarda un punto lontano davanti a sé. Tic tic tic. Nella sua mente le voci si affievoliscono, spariscono, è silenzio; ma sente ancora i suoi passi, i passi di lei bambina, delle scarpe di vernice nera. E poi il cigolio, e poi Chopin, la playlist sporca della sua mente.
Arriva davanti al portone, entra, percorre la navata. Si siede. In attesa dell’inizio della funzione la chiesa è silenziosa. La chiesa, ma non la mente di Marta. Il repertorio dei ricordi si ripete, incessantemente. La funzione ha inizio, ma Marta non ascolta nulla. Vede gente avviarsi all’altare per la comunione, vede il sacerdote muoversi vicino all’altare e vicino alla bara, ma è come guardare un film, lei non è lì. E’ per strada, con le scarpe di vernice che fanno rumore sui sanpietrini, è davanti a un orribile e massiccio portone, è davanti a un piano e poi in una stanza buia. In quella stanza la nebbia sporca l’aveva avvolta; da allora tutto era cambiato, era cominciata la lotta. La lotta contro lo sporco e contro il silenzio. Da allora il suo corpo non era stato più suo per molto tempo. Era stata così felice all’idea di prendere lezioni di piano.
Aveva aperto quel portone per molti mesi prima che sua madre si accorgesse del suo dolore. Mesi di passi e cigolii e puzza di umido. Mesi di silenzio terrorizzato. E poi il silenzio era stato rotto. Lei lo aveva rotto, e da allora, mai più silenzio, era stata circondata da tante voci: voci in paese delle persone che la indicavano, voci dei medici che la visitavano, la voce di quella sconosciuta che voleva farle raccontare. Dopo il processo, i genitori di Marta avevano deciso di lasciare quel posto, andare lontano. E così era stato, lui era stato arrestato e loro erano partiti.
La funzione è finita. Marta segue il feretro. Esce dalla chiesa; la piccola piazza è affollata, non sopporta quella gente, scivola verso una via laterale e si allontana in una stradina completamente deserta, in cui solo qualche gatto gironzola svogliato. E’ identica a tutte le altre del piccolo paese arroccato sulla collina. Marta adorava percorrere quei vicoli, da piccola. In certe ore erano deserti e silenziosi, ognuno di un silenzio diverso: il vicolo Garibaldi era silenzioso di ninna nanna; erano nati tre gemelli in una di quelle case e dopo la ninna nanna cantata dalla mamma i bambini dormivano e i vicini cercavano di non fare rumore. Poi c’era il vicolo Roma, dove regnava il silenzio del capriccio: c’erano tanti anziani seduti sulle scale e tra loro Gianni, un bambino grassoccio e monello, perennemente in punizione dopo aver fatto i capricci. Se ne stava seduto tra i vecchi, col broncio, in un silenzio offeso. E i vecchi sorridevano e tacevano, per rispettare il suo dolore di bambino sgridato. Il vicolo Carmine era il vicolo del terrore: Marta sapeva che nel grande palazzo che occupava tutto il vicolo, la signora Maria stava zitta tutto il giorno, nella terrorizzata attesa del ritorno del marito. La picchiava, tutte le sere. E lei taceva. Sempre.
Marta percorre i vicoli e rivive nella sua mente tutti i loro silenzi. Vorrebbe tanto ascoltarli come quando era bambina, con la mente vuota, ma da tanto tempo non si può permettere il silenzio.
Il vicolo Carmine finisce in una piazzetta. Si chiama piazzetta del Rosario e Marta la adorava, prima. E’ chiusa su tre lati dalle case ammucchiate tra cui si aprono i vicoli e ha il quarto aperto su una collina brulla; è gialla, non ha una macchia di verde, spuntoni di roccia ogni tanto distraggono l’occhio; dietro, uno spicchio di mare. Marta amava rimanere seduta a terra a guardare la collina, prima. Ma quella era la piazzetta del portone massiccio, del portone che cigolava, la piazza delle lezioni di piano. Marta guarda la collina, poi il portone: è ancora lì, massiccio, senza dubbio ancora cigola. Dietro a quel portone Marta ha smesso di amare il piano; qualcuno l’ha sporcata, le ha rubato il silenzio. A destra del portone c’è un muro alto che circonda il giardino, sul giardino si affaccia un piccolo balcone. Marta sa bene che è il balcone della stanza del piano. Alza lo sguardo, il balcone è circondato da bouganville, ma Marta riesce a vedere che c’è qualcuno lì seduto, è lui, lo stesso uomo che le dava lezioni di piano e le ha rubato il suo corpo, e il suo silenzio. Marta non le vede da molti anni, per tanto tempo lo ha sognato e al risveglio si sentiva ancora quella bambina chiusa nella stanza buia, senza via d’uscita. Tante volte ha pensato che se le avesse rivisto avrebbe provato ancora odio, un odio profondo, viscerale. Ha pensato che il suo sguardo la avrebbe ancora paralizzata, che il terrore, come quando era tra le sue mani in quella stanza, si sarebbe impadronito di lei. Ora l’uomo che le ha rubato il silenzio è lì, lo sta guardando e lui guarda lei. Ha ancora lo sguardo gelido e cattivo, è sempre lui. Marta lo fissa a lungo negli occhi, per tutto il tempo di cui ha bisogno per sentire il gelo del terrore entrarle nelle ossa, continua a guardarlo finché quel gelo la attraversa tutta, muscolo dopo muscolo la paralizza e lei si concede di stare lì immobile per provare a se stessa che quel freddo non può ucciderla. E poi si concede di ascoltare il silenzio: elimina il rumore dei grilli lontani, elimina le voci che si diffondono da qualche televisione vicina. Ora lei è immersa nel silenzio e aspetta: puntuale arriva il tic tic delle scarpe di vernice, il cigolio del portone, la musica di Chopin. Marta si costringe ad ascoltare quei rumori, i rumori dello sporco. Non li interrompe con le parole, con la fuga, con la musica. Li lascia galoppare nella sua mente, sempre più forti; esplode il ticchettio delle scarpe, fa venire i brividi quel cigolio, le note si accavallano una dopo l’altra. Marta li lascia scorrere, alza il volume, li ascolta con tutto il suo essere, fino a sentire il gelo sciogliersi, il corpo di nuovo capace di muoversi. Stringe i pugni, per accertarsi di essere viva, di potersi muovere; può farlo, il suo corpo risponde ai comandi, non è paralizzato, può andare via. E nella sua mente torna il silenzio: non sente più i suoi passi sulla strada, non sente più il rumore di quel portone, non sente più il piano. Marta è viva, ora ne è certa; è viva ed libera, libera di stare lì a fissare l’abisso negli occhi del mostro per dire che non ha più paura e libera di andare via. Ora lo sa. Da una finestra viene fuori la pubblicità di un detersivo per piatti; Marta si allontana, va verso la ringhiera che dà sulla collina, si affaccia. Guarda il giallo, le rocce, il mare in lontananza. E ascolta: le pecore sulla collina belano, la televisione lontana continua a blaterare, in un vicolo due donne parlano, ma i rumori sono sempre più lontani, Marta si concentra sui rumori della sua mente, li ascolta e si accorge che non ci sono: nessuna scarpetta, nessun portone, nessun piano. C’è pace ora nella sua mente. Guarda ancora la collina e si gode il silenzio.