Il silenzio di San Vittore ha la voce di tante lingue.
A San Vittore ho conosciuto Hamid, che ha vissuto la sua storia partendo da Casablanca per arrivare a Tangeri con solo 3.800 dirham, poco più di trecentottanta euro. A quel tempo, al suo Paese, bastavano per due o tre settimane. Non certamente per uno che ha in testa di attraversare clandestinamente il mare verso l’Europa.
Saluta con un bacio l’amata madre, abbraccia i fratelli, guarda dritto dentro gli occhi del padre e stringe forte la sua mano possente. Ti auguro buona fortuna, dice Kaled. Inciaallah, risponde Hamid, ma muove solo le labbra, se parlasse gli verrebbe da piangere. Per partire non servono parole.
Scende dal treno al capolinea di Tangeri, sente un’aria piacevole, diversa da quella della sua città. Respira forte, pensa al suo viaggio, ha un po’ paura, ma ci crede
Prende un taxi per andarsene alla città vecchia dove il cugino gli ha indicato una casa che affitta stanze. Il tassista gli dice: “Ciao, mi chiamo Said. Da come sei vestito, con quella bella valigia in mano, di sicuro vivi in Europa”.
Hamid fa un cenno d’assenso con la testa, mentendo. L’Europa è la sua meta, Milano la città da raggiungere. Ma è meglio non fidarsi, Tangeri è una città d’imbarco, la polizia è a caccia di abusivi.
Scende dal taxi, paga a Said 15 dirham e lo saluta con la mano.
Cammina pochi passi e bussa a una vecchia casa, il padrone gli fa vedere una stanza al primo piano, più piccola della cella che adesso occupa a San Vittore. Un locale con una finestra sopra la porta, un letto, un tavolo, una sedia e niente di più; per Hamid non è importante com’è la stanza, l’importante è avere un alloggio sicuro, un posto dove appoggiare la testa e lasciare la valigia.
Si metto d’accordo con il tizio per mille dirham il mese, gli dà le chiavi e quello lo avvisa: “Non mi frega chi sei, cosa fai, dove vai. Ogni primo del mese mi paghi, altrimenti il secondo giorno spacco la porta, prendo la tua roba, cambio la serratura e affitto la stanza a qualcun altro, intesi?” Hamid allarga le braccia in segno di resa, sorride amaro: anche la mia gente campa sui migranti.
Per tre giorni rimane in giro per scoprire la città senza entrare al porto che è qui vicino. La cosa importante è di avere trovato dove fare la doccia ogni giorno, in spiaggia ce ne sono due o tre, tutto gratis. Nella camera che ha affittato, la doccia è sconosciuta, esiste solo il bagno inteso come toilette, ed è contento che ci sia.
Il quarto giorno entra nel porto di Tangeri per la prima volta, all’ingresso c’è molta gente che entra e che esce: automobili camion tir. C’è anche la polizia che ferma solo i sospetti clandestini, quelli si riconoscono subito da come sono vestiti, sporchi e disordinati; la maggioranza arriva con un solo obiettivo: andare in Europa in qualsiasi modo e in breve tempo. Ci provano continuamente e alcuni di loro sono lì a provarci da un paio d’anni, finiscono per diventare barboni che vivono per strada. Ogni tanto la polizia fa un blitz in tutta la città, porto compreso, carica due o tre pullman, e va il più lontano possibile, scarica quei disgraziati lasciando tutti a piedi, e che si arrangino.
Hamid è vestito con eleganza, si atteggia come uno che vive in Europa da sempre, appena entrato agli approdi porta all’orecchio il cellulare che suo padre gli ha regalato facendo finta di chiamare qualcuno.
Nel porto regna un immenso disordine, moltissimi mezzi di trasporto, viaggiatori che si muovono a piedi andando verso le navi. Bel casino nel mese di agosto, periodo ideale per i clandestini, ma il suo primo giorno al porto è andato malissimo.
Era riuscito a infilarsi tra i passeggeri a pochi metri dalla nave, molti aspettavano in auto il controllo dei documenti, la coda era parecchio lunga a causa dei severi accertamenti, in special modo sui tir che s’imbarcano prima degli altri, il primo tir che sta per entrare è bianco, sul rimorchio spicca la scritta Juan Carlos.
Non dimenticherà mai quel nome e quel momento.
Appena il mezzo sale sulla ribalta, l’autista alza in automatico le due ruote posteriori per rendere stabile il mezzo durante il trasporto verso la stiva. Subito si alza nell’aria un terribile grido, quasi contemporaneamente arriva un suono sordo, un trraak che rassomiglia all’esplosione di una bomba.
È la testa di un ragazzino scoppiata tra la ruota e il ferro sul fondo del rimorchio.
Hamid vede il suo corpo caduto per terra, l’autista se ne accorge e riabbassa le ruote, il sangue scorre sull’asfalto, Hamid ha sotto gli occhi una scena terribile, per terra si distinguono pezzi spaccati della testa del ragazzo. La gente urla, piange, qualcuno chiama l’ambulanza, altri fuggono via per lo spavento; la polizia allontana i curiosi, Hamid rimane fermo al suo posto. Non può credere ai suoi occhi, il cuore batte all’impazzata, immagina che qualcuno esca dalla folla con quella cosa macilenta tra le mani, come fosse un film, ma purtroppo l’incidente è reale.
Scoppia a piangere senza singhiozzare, i poliziotti si potrebbero insospettire.
Sente la sirena dell’ambulanza che si avvicina, vede un clandestino che cerca di entrare nella nave e uno della polizia che lo allontana, l’abusivo scappa come uno sciacallo. Hamid si chiede come si possa approfittare di una situazione simile, quella testa poteva essere la sua, poteva essere la testa di chiunque, al posto di quel povero ragazzino. Basta! Non ce la fa a guardare ancora, gli fa male la testa.
Esce dal porto, sono quasi le due del pomeriggio, va dritto alla stanza, s’infila nel letto. Ha una gran voglia di dormire. Si addormenta con il viso coperto di lacrime
Si sveglia verso le otto di sera, esce per arrivare in un posto più alto sopra la città, vede le luci dall’altra parte del mare, le luci di Spagna. Sospira, è veramente troppo vicina, si sente come una falena attratta dalla fiamma. Ha voglia di andare lì, a qualsiasi costo, ha bisogno di arrivare in un posto dove nessuno è costretto a scappare.
Trascorrono altri giorni, Hamid non sa che fare, Tangeri è una città costosa, i soldi cominciano a scarseggiare, deve prendere una decisione: riprovare o tornarsene a casa. Suo padre ne sarebbe felice, ma anche deluso per il suo poco coraggio.
La mattina successiva torna al porto e va nella zona dei tir, il primo mezzo ha la scritta dell’altro: Juan Carlos, Hamid è scaramantico, meglio lasciar perdere. Passa al secondo autotreno, si guarda intorno, la confusione è ancora grande, ma nessuno lo bada, butta la valigia sotto le ruote e poi si sdraia scivolando sotto.
Hamid sa come sistemarsi sotto il fondo dell’automezzo senza rischiare.
Ora deve solo aspettare. Trascorrono alcune ore, poi il tir si muove, qualche volta i poliziotti si abbassano per guardare sotto il fondale, spera che non lo facciano, deve starsene zitto e respirare lentamente.
Il camion sobbalza e poi si blocca, ha trovato il suo posto nella stiva.
Tra non molto parte anche la nave, qualche minuto ancora e potrà uscire, restando nascosto tra i camion. Tende l’orecchio per sentire il rumore delle onde, il punto d’arrivo è il porto di Tarifa. Da Tangeri sono 60 chilometri, circa due ore di viaggio.
Finalmente la nave attracca, Hamid sistema meglio che può il suo aspetto, con la valigia sembra un turista qualunque, si allinea alla coda e scende mettendosi a fianco di una famiglia. Quando è sulla banchina va verso il bar, deve evitare il controllo doganale, il sua amico Bilal ha già fatto questo percorso: dietro al bagno del locale c’è una rete che altri come loro hanno provveduto a tagliare, il ragazzo ci arriva e scopre facilmente il punto dove la rete si piega, passa oltre e si trova in una radura che porta ad un boschetto, si mette a correre per poi nascondersi dietro gli alberi, ma nessuno lo insegue. Finalmente ha raggiunto la tanto agognata Europa.
L’emozione è forte, vorrebbe gridare la sua gioia, ma è meglio tacere, il nemico ti ascolta, la strada per Milano è ancora lunga e ci sono altre dogane da superare.
Si sdraia sul prato e dorme. Al risveglio si mette in cammino verso Gibilterra dove cerca e trova un pullman per la Francia, è stanchissimo, si siede in fondo sull’ultimo sedile, estrae un foglio dove Bilal ha disegnato il percorso. Una ragazza si siede a fianco, è carina, se parlassi spagnolo magari potrei conversare. È dal primo giorno che non parlo con qualcuno. A notte fonda arriva a piede nella zona indicata da Bilal e supera il confine. Sino a pochi giorni prima, del mondo intero, Hamid conosceva soltanto Casablanca, ora, ha già camminato in tante città e in due nazioni europee.
Prima di iniziare il percorso ha comperato del pane, quando sulla strada incontra una casa diroccata entra, sgranocchia il pane, fa i suoi bisogni sul lato più buio e riprende a dormire. Il giorno successivo, alla stazione di Marsiglia, la nostalgia di casa si fa sentire, vorrebbe telefonare ma ha pochi soldi e non sa come fare. A chi chiedo? Acquista un biglietto del treno per arrivare al nuovo confine. Ma Hamid diventa ogni giorno più triste e ogni giorno aumenta la paura di non farcela.
Sente il bisogno di una doccia, certo, ma dove, ma come?
Due giorni dopo scende da un altro treno alla Stazione Centrale, bravo Hamid ce l’hai fatta. A Milano ha l’indirizzo di qualche connazionale, basterà prendere un tram, anche per quello ha preso nota, anche per quello sa come fare.
“Prego signore, ci può mostrare i documenti?”. È la prima persona che dopo dieci giorni di silenzio gli rivolge la parola, ma è anche l’unica persona che non avrebbe voluto incontrare. Emigrazione clandestina, gli dicono.
Non che Hamid capisca, intuisce, e comunque lo portano a San Vittore dove il silenzio parla infinite lingue. Ora Hamid è più silenzioso di prima, per rabbia non mangia e non parla. Ha trovato un foglio e una penna, ha scritto una frase in italiano che sta sopra la sua branda: Voi mi odiate e io per dispetto vi am