Una vita in silenzio

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Se ti sposai  è forse perché temevo di rimanere zitella.
Tutte le mie amiche si erano sposate o avevano già fissato la data delle nozze.

Tutte tranne me.
E tu arrivasti proprio in quel momento di incertezza bruciante.
Non eri bello e nemmeno simpatico, ma eri gentile, educato, serio e avevi una buona posizione.
Incominciai ad uscire con te in attesa di trovare qualcun altro, ma tu eri stringente, mi corteggiavi in modo assiduo e io piano piano mi abituai a te.

Pensai che tu mi avresti protetta e resa felice.
Ci trasferimmo a Milano e l’essere qui, noi due soli, ci rese quasi necessari l’uno all’altra.
Mi sentivo felice, mi pareva di avere una bella famiglia, tranquilla, una figlia bellissima e intelligente.
Sacrificai le mie ambizioni per far volare le tue, lavoravo part-time per correre a casa in tempo e fare tutte quelle cose che rendono le donne necessarie.
Ma tu facesti carriera e piano piano prendesti un’aria di sufficienza nei miei confronti.
Sempre educato, quello sì, mai una voce troppo alta… ma era come se non mi considerassi all’altezza.
Quando uscivamo per le tue cene di lavoro, passavi al setaccio il mio abbigliamento e la mia capigliatura… sempre critico.
Eppure io ho buon gusto e sono affettuosa, piena di premure, cerco di fare tutto al meglio, allora perché questa sensazione costante di inadeguatezza?
Sembrava che la nostra famiglia fosse felice… fino a quel giorno.
Quel giorno maledetto in cui entrai nel tuo studio e trovai Giulia, nostra figlia,  in piedi vicino alla tua scrivania, con un foglio in mano.
La chiamai ma lei non mi rispose, pallida, pietrificata, mi allungò la lettera senza una parola.
Io non volevo prenderla, rimasi muta,agghiacciata, ma lei me la sventolò sotto il naso, impaziente, e scoppiò in lacrime.
Dovetti allungare una mano, la presi con due dita con cautela, come fosse un ordigno esplosivo.
Ed esplosiva lo era davvero.
Lessi solo la prima riga, niente altro.
Non voglio leggere, non voglio sapere.
Chiesi a Giulia dove l’avesse presa e le ordinai di rimetterla al suo posto.
Forse usai un tono troppo secco. perché lei mi guardò stupita.
“Non devi permetterti mai più di frugare tra le carte di tuo padre” le sibilai “Mai più, hai capito?”
Ma lei non aveva capito, mi urlò che io non l’avevo neanche letta e che moglie ero se non mi importava che mio marito avesse un’altra.
Le diedi un ceffone e sempre con quella brutta voce sibilante le ordinai di andarsene in camera sua subito e che le proibivo di farne cenno con suo padre.
Rimasi lì tremante, una mano sulla fronte e una sul cuore.
“Io non ho visto niente” mi dissi “ niente, io non so niente, tutto è come prima, adesso vado in cucina a preparare la cena, non è successo niente. Niente.”
Così, sussurrando questa litania tranquillizzante, andai in cucina e passando davanti alla porta della camera di Giulia la sentii singhiozzare.
Non so cosa fare.
Apparecchiai la tavola con cura, come sempre, ma le mani mi tremavano.
Ingoiai due pillole di Ansiolin e dopo un po’ il cuore non mi batté più forte come prima.
Poi arrivasti tu, nemmeno ti accorgesti del silenzio, del viso arrossato di Giulia, chino sul piatto, dei miei occhi fondi come laghi.
Le chiedesti qualcosa sulla scuola, ma distrattamente e lei rispose evasiva, poi si alzò e andò in camera a studiare.

 

Io e te da soli.
Da quel giorno Giulia mi parla appena.
Ho raccontato il fatto a mia sorella e lei mi ha ruggito di tutto al telefono.
Ha detto che sono stata un pessimo esempio per mia figlia, mi sono mostrata sottomessa, non ho reagito al grave torto subito.
Le ho mostrato che una moglie deve subire in silenzio, non sono stata capace di parlarle, di rassicurarla, di più: l’ho schiaffeggiata.
Mi ha chiesto cosa mi fosse accaduto in tutti questi anni per trasformarmi in una specie di ameba senza spina dorsale.
Non so cosa fare.
Dopo qualche giorno Giulia ci comunicò che sarebbe partita con il progetto Erasmus.
Io e te da soli.
Cieca.
Negai a me stessa perfino di aver trovato del rossetto sul collo di una tua camicia, come se la colpevole fossi io, la lavai subito dicendomi che avevo visto male.
Cieca.
E sorda.
E muta.

Mangiamo sempre in silenzio.
Per fortuna che c’è la televisione.
Io ti odio.
E odio me.

Un giorno ti ho messo nel piatto qualche goccia di Guttalax.
Il giorno dopo eri disturbato.
Così l’ho fatto ancora e ancora e ancora.
Adesso arrivi a casa presto e non esci la sera, sei pallido.
Mi hai detto che non stai molto bene.
Ho dovuto trattenermi per non scoppiare a ridere soddisfatta.
Mi hai detto che sei andato dal medico e che ti ha prescritto degli esami.
Ho mostrato comprensione e ho chiesto notizie.
Mi hai chiesto se ti potevo accompagnare in ospedale per questo esame.
Ho sospeso la somministrazione per paura che ne trovassero delle tracce.
Ti hanno fatto la colonscopia e ti hanno trovato un cancro.
Se non avessi fatto questo esame saresti morto senz’altro. Hanno detto che sei stato fortunato.
Ti ho salvato la vita.
Giulia non è tornata neanche per l’intervento, dice che ha degli esami e non può partire.
Non importa.
Ti ho perdonato.

Forse perché ti ho visto così fragile in quel letto con tutti quei tubicini infilati nel tuo corpo.
Ti ho perdonato, le cose importanti della vita sono altre.
Voglio che siamo felici.
Ti ho salvato la vita e non posso neppure dirtelo.
Un giorno però, arrivando in ospedale ad un orario insolito vidi uscire dalla tua camera  una donna bionda, sconosciuta.
Più giovane di me.
Più bella.
Andai via e tornai al solito orario.
Il giorno dopo la scena si ripeté, la tua visitatrice era una costante della tua vita.
E tornasti a casa deboluccio e sofferente con un lungo elenco di cose da non mangiare.
Io te le cucino tutte.

Sono diventata esperta nel mascherarle, tu neanche te ne accorgi.
Non ti stai rimettendo molto bene.
Come mi dispiace.
Hai il colesterolo molto alto.
I grassi non vanno bene.
Non ti accorgi della quantità di panna e di burro che ti propino.
Ma stamattina al lavoro sono stata male, ho avuto un attacco di panico, mi pareva di soffocare.
Mi hanno portata in infermeria e qui c’era una dottoressa giovane.
Mi ha chiesto della mia vita, sostiene che sono troppo stressata.
E allora… le ho raccontato tutto, che desidero farti male, che desidero che tu muoia.
Lei mi ha ascoltato con gli occhi sgranati, poi mi ha detto che ho bisogno di uno psicologo e che tutto questo capita perché io non ho parlato.
Dice che i litigi servono, che tenersi tutto dentro è deleterio.
Ho pianto, ho pianto tanto, poi sono andata a casa.
Davanti c’era un’ambulanza, la custode quando mi ha visto mi è corsa incontro e mi ha detto che tu avevi avuto un infarto.
Ho visto che eri su una lettiga e che ti stavano caricando proprio in quel momento.
Mi sono avvicinata. Le tue mani aggrappate a quelle della donna bionda, i tuoi occhi spauriti incatenati ai suoi.

Ho distolto subito gli occhi, mi sono girata e sono salita in casa.
Non voglio vedere, se non vedo la cosa non esiste.