Eri così attratto dal mare, così calamitato dalle onde, che per un certo periodo ho pensato che fossi stato generato da quelle stesse acque e non da me.
Quando osservo le foto della tua infanzia, quelle di vent’anni prima, tra le strade del paese, sulla spiaggia, percepisco ancora le stesse sensazioni. Sono fuggita da quei luoghi, dalla mia famiglia, dagli amici. Sono fuggita perché odiavo te, tuo padre, i medici e la loro ignoranza, gli altri che sembravano felici, le mamme sorridenti coi loro bambini in braccio. Odiavo tutti.
Non c’era posto per nient’altro. Mi dicevano che la vita doveva continuare, dicevano che in fondo poteva andare peggio, che certo, non sarà facile, ma… Ma cosa? Perché non stavano zitti? Perché il mondo non piangeva la mia disperazione, perché non era esploso l’universo insieme a me?
Non riuscivo a toccarti, non riuscivo a prenderti in braccio. Ti ho abbandonato nel reparto dell’ospedale, lasciando che le cure che sarebbero spettate a me, ti venissero dalle infermiere. Ti guardavo, senza riconoscerti. Non eri tu che volevo, non era te che stavo aspettando. Io aspettavo un bambino sano, normale. Aspettavo la mia porzione di futuro, garantita da analisi, medici e controlli.
Dovevi portarmi nel mondo di domani. Quello che avevo immaginato per noi non sarebbe stato mai ed è diventato d’un colpo diverso, diverso come te. E’ diventato l’incubo della colpa, la ricerca affannosa di qualcosa che forse avevo mangiato o respirato, oppure bevuto… O forse tuo padre aveva mangiato o respirato e bevuto: l’inquinamento, le scorie radioattive, i piloni dell’alta tensione.
Avevo bisogno di un perché.
L’attimo che cambia tutto, quello che capita sempre a qualcun’altro, era piombato in sala parto mentre io sudavo e spingevo e non vedevo l’ora di conoscerti e annusarti, di toccare la tua pelle. Ti ho solo intravisto, solo un istante, poi sussurri e frasi smozzicate. Tu stavi preparando quell’attimo da mesi e nessuno se n’era accorto. Crescevi diverso e io continuavo a progettare una vita normale. E poi le spiegazioni, la costernazione, gli occhi bassi. D’altra parte i medici non sono mica Dio, queste cose capitano raramente ma purtroppo capitano, ci dispiace moltissimo… Sì, ma tu eri mio figlio.
Non ci sarebbe stata nessuna cura, nessun rimedio, nessuna salvezza per noi. Potevo solo portarti a casa.
Ti guardavo senza sapere chi eri, perché indossavi le belle tutine che avevo comprato per il mio bambino, perché non parlavi, perché c’eri tu al suo posto, con i tuoi bisogni così speciali. Rubavi tutto il mio tempo senza darmi niente in cambio.
Non saresti mai entrato nel mio mondo, non avremmo mai potuto condividere la lettura di un libro, commentare un film visto insieme al cinema o usato le stesse parole per parlarci, lo stesso linguaggio.
Mi capitava di entrare nella tua stanza – nella stanza di quell’altro bambino, che tu occupavi – e di pensare che se fossi riuscita a concentrarmi con tutte le mie forze avrei potuto far tornare indietro il tempo, a un abbraccio fra me e tuo padre, a un’intenzione senza seguito. Non mi concentravo mai abbastanza.
Con la stessa determinazione con cui eri rimasto aggrappato a me, con la stessa volontà di nascere che ti aveva portato fino lì, rimanevi a galla tra le onde, in quella stanza, in quel lettino, dentro quelle tutine, assolutamente impermeabile al mio dolore, al mio desiderio di fuggire, ai miei pensieri terribili. E quel tuo silenzio testardo è diventato il nostro modo di comunicare. Tu non parlavi, io non parlavo, ma i giorni passavano, si ammucchiavano uno dietro l’altro, dandomi modo e ti danno modo di abituarmi alla tua assenza di suoni, di imparare.
La vita è sempre capace di sopravvivere, ridisegnando spazi, strategie, opportunità. Il quotidiano silenzio fra noi si è lentamente animato delle azioni necessarie ad accudirti. I gesti della tua cura hanno, a poco a poco, sanato la nostra intimità perduta, consumata nel dispiacere.
Ogni volta che tornavo al paese e ti portavo al mare, davi l’impressione di ritrovare il tuo vero mondo. Tu sapevi che quel luogo, quelle spiagge, erano cosa tua. Osservavi concentrato l’orizzonte davanti ai tuoi occhi, fissavi quelle onde che ti hanno sempre catturato.
Ho smesso di chiedermi perché. E con il tuo sguardo rivolto davanti al mare, ho ricominciato a vedere davanti a me, davanti a noi. Sei tu, testardo e silenzioso, che mi hai indicato la strada. Così sono tornata a casa. A casa con te.
Ancora oggi, a distanza di vent’anni, quando ti porto in spiaggia d’estate, sorrido a ciò che succede. Tu arrivi, ti spogli velocemente, raggiungi l’acqua ed entri schizzando acqua dappertutto, per la gioia di essere tra le onde. So che la tua andatura non è di certo rassicurante per nessuno e tantomeno la tua figura adulta in mezzo all’acqua, che salta in modo. Si crea il vuoto, comprensibilmente, intorno a te. I genitori e i bambini circostanti pensano bene di allontanarsi dalla tua area di azione.
Ignaro dei movimenti di fuga circostanti, continui a saltare tra le onde, esprimendo senza nessun freno il piacere di stare nell’acqua. E io so che cosa sta per succedere. Poco alla volta i bambini, comprendendo l’assoluta tua innocuità, affascinati dalla tua potenza e capacità di esultare, si avvicinano e iniziano a giocare con te. Una scena talmente divertente e contagiosa che anche gli adulti, attratti dal tuo sorriso e dalla tua innata simpatia, si lasciano coinvolgere in un momento di puro godimento e allegria.
Eri così da bambino e sei così ora, senza parole, senza suoni, ma capace di coinvolgermi e trascinarmi nella vita. Ho imparato a conoscerti e riconoscermi.
Tu, diversamente figlio, e io diversamente madre.