Mi vesto pesante, a strati, in modo che sia minima la porzione di pelle esposta al freddo della strada. Metto il cappello di lana calato fino alle sopracciglia e i guanti con le punte tagliate, così Silvia forse non mi rimprovererà che mi sono vestito troppo leggero. Alla fine indosso il giubbotto giallo fluorescente con le strisce catarifrangenti che mi rende più vistoso di un senegalese in mezzo a un raduno naziskin.
Vado in garage e controllo che nel retro del Fiorino ci sia tutto: secchio, cazzuola, calce e tutto il resto. Più la solita roba, un po’ alla rinfusa. I fiori no, sono belli e ordinati come fossero ancora in una serra. Salgo e metto in moto.
— Buongiorno, papà.
— Ciao, piccola.
Mi sorride, la mia Silvia, con quel sorriso dolcissimo che ha sempre avuto e che avrà per sempre.
— Dove andiamo, oggi?
— Abbiamo parecchio da fare. Ma prima si fa colazione.
Dopo due minuti mi fermo all’imbocco della statale davanti al bar di Mario. Quando mi vede la sua bocca prende una piega amara. So che è contento di vedermi, anche se gli ricordo che suo figlio è morto tre chilometri più avanti, sulla statale, quasi tagliato in due dal guard-rail.
Vengo servito subito: cappuccino e cornetto, al bancone perché ho fretta e Mario lo sa.
Quando ho finito mettiamo in scena la solita pantomima a beneficio degli altri clienti e della buona creanza: faccio finta di portare la mano al portafogli e lui scuote il capo, io insisto e lui fa un altro gesto con le mani come a dire “la prossima volta”. Solo che la prossima volta sarà lo stesso. Lo saluto e mi accorgo che, come al solito, non ho scambiato una parola con Mario né con nessun altro.
— Dove andiamo? — mi chiede di nuovo Silvia
— Da Fabio. Oggi è il suo compleanno.
La Romea, stamattina, non è trafficata più di tanto. Forse sarà la nebbia a far sembrare che ci siano meno macchine. Ma ci sono, lo sento dall’aria fredda mista a smog e dal rombo cadenzato dei motori che passano sulla corsia opposta. Guido piano, stando attento a tutti gli incroci e agli attraversamenti pedonali. Gli altri corrono, sorpassano e danno di clacson, come se la loro vita dipendesse dai secondi che forse guadagneranno nel tragitto.
— E dopo? — chiede ancora Silvia.
— Dai bambini di San Varano.
La nebbia sta sciogliendosi, il sole non è più un occhio cieco nella caligine grigia e si allarga nel cielo come una goccia d’olio in un piatto.
Dopo qualche chilometro parcheggio in una piazzola di sosta. Prendo i fiori e le sigarette e proseguo costeggiando il guard-rail. Arrivo e vedo che Silvia sta già parlando con Fabio. Non si conoscevano, prima. Adesso sono diventati amici.
Fabio è vicino al suo albero circondato da una specie di aiuola di fiori secchi ancora incellofanati, un paio di piante in vaso e un peluche che lo spostamento d’aria dei TIR ha fatto capovolgere. Sistemo i fiori che ho portato, rimetto in piedi l’orsacchiotto e tra le sue braccette di stoffa piazzo il pacchetto di Camel.
— Grazie, — mi fa Fabio con quel sorriso un po’ imbronciato che lo fa tanto ragazzino.
Gli faccio un gesto come a dire “ma ci mancherebbe” e incomincio a pulire lì intorno. Intanto, lui e Silvia continuano a parlare. Mi piacerebbe tanto sapere cos’hanno da dirsi.
Tolgo le cartacce, le lattine e l’altra spazzatura che il vento e gli automobilisti hanno fatto cadere ai piedi dell’albero. Poi butto i fiori secchi, sapendo che oggi ne arriveranno di freschi. Alla fine, riempio quasi una busta. Torno al Fiorino, metto dentro la busta e prendo le forbici da potatura e il rastrello per togliere le erbacce.
Arriva un’altra macchina. È la mamma di Fabio, con gli occhi già gonfi di pianto, come se non avesse mai smesso di piangere. E probabilmente è proprio così: non ha mai smesso. Mi si fa incontro, con le braccia larghe ma il capo chino, come a trattenere le lacrime. Quando l’accolgo tra le mie braccia, si lascia andare, la sento singhiozzare sulla mia spalla. La stringo, senza dire niente.
Dopo un po’ il nostro abbraccio si scioglie. Con un fazzoletto lei si asciuga il viso e abbozza un sorriso che alla fine, però, si rivela un’altra smorfia di dolore.
— Lo sa, oggi sono cinque anni.
Il suo petto sussulta ancora una volta, come se un singhiozzo fosse rimasto indietro.
Annuisco. Lo so, anche se vicino l’albero di Fabio non ci sono targhe, non dimentico. Sono lì apposta. Anche lei se ne accorge quando vede le forbici e il rastrello.
— No, spetta a me che sono la madre. Ho portato tutto l’occorrente. Lei già fa troppo, grazie.
Non protesto, so che è giusto così. Tocca a lei sistemare l’altarino, perché il dolore, quello vero, è solo il suo.
Torno vicino all’albero. Silvia e Fabio non parlano più, lui ha visto la madre e la sta aspettando. Si parleranno, ma lei non lo sentirà. Però si capiranno lo stesso.
Quando torno indietro, vedo la donna con la testa nel portabagagli alle prese con i fiori e tutto il resto. Le passo da dietro e le stringo una spalla, affettuosamente. Lei mi rivolge un sorriso stentato.
— Ci vediamo l’anno prossimo, — mi fa.
Faccio sì con la testa: tra un anno, ma anche prima, passerò di nuovo a salutare il suo Fabio.
Metto la freccia e mi rimetto sulla statale. Non c’è più nebbia e la gente al volante lo prende come un lasciapassare a pestare di più sull’acceleratore. Non bada agli altarini che punteggiano il ciglio della strada, non vede i fiori e nemmeno i bigliettini. Se ci facesse caso, ne vedrebbe tanti, troppi.
— Allora andiamo da Paolina, Domenico, Tonino e Maria? — mi chiede ancora una volta Silvia.
Mugugno un sì, mantenendo lo sguardo incollato alla strada e agli specchietti.
Quando arriviamo, non faccio in tempo a scendere che i quattro bambini corrono festanti verso Silvia. Mi passano attraverso come fossi nebbia e sento un brivido scuotermi dall’interno, come se la mia anima fosse stata toccata per un attimo dalle loro.
Mi avvicino al tempietto “edificato dalla pietà della gente sul ciglio lagrimato”: fecero una colletta onerosa, i contadini di San Varano, per tirare su quattro croci di cemento su cui poggia una cupola a coprire dalla pioggia una Pietà dolente. Da tempo avevo in mente di dare una sistemata alle crepe e ai mattoncini scrostati. Valuto i danni del tempo che non ha avuto pietà, ché non ne ha mai per nessuno, nemmeno per la memoria.
“Come fiori recisi dal turbine”, recita la targa.
Congelati nei quattro ovali di ceramica, Paolina, Domenico, Tonino e Maria guardano senza vedere, con espressione sperduta. Forse, penso, era solo la soggezione per il fotografo che nel 1925, in campagna, era ancora una specie di stregone. Ma in questi quattro sguardi di bambini senza sorriso mi sembra di leggere la premonizione di un terrore. Fecero forse in tempo a vederlo davvero in faccia, all’ora di pranzo di un giorno lontano, il 16 gennaio del 1925, allorché, “tornanti dalla scuola ebbero spezzata la vita da irruente autocarro”. Leggo quelle parole incise nel marmo e m’immagino che a dettarle sia stata la commozione del maestro del paese in lacrime.
Prendo gli attrezzi mentre Silvia e i bambini giocano incuranti del rombo dei camion. Impasto la calce e incomincio a lavorare. Quando ho finito, do una ripulita e sistemo i fiori che ho portato. I fiori nei vasi non ci sono più da tempo: non “recisi dal turbine”, ma dall’indifferenza. Nei quattro candelieri, solo rimasugli di cera sudicia e indurita. Le auto che filano sulla statale neppure immaginano di sfiorare uno dei più antichi monumenti alle vittime del traffico motorizzato.
Riporto indietro gli attrezzi e salgo in macchina. I bambini mi salutano e salutano Silvia, con le loro vocette squillanti, troppo acerbe come le loro vite recise.
— E adesso dove andiamo? — chiede Silvia.
Non le rispondo. E lei capisce.
Sul cruscotto c’è la lettera del comitato. Silvia la vede.
— Cosa c’è scritto?
I soliti ringraziamenti, rispondo.
— E poi? — m’incalza.
Sbuffo. Vorrebbero che facessi una conferenza, che parlassi con qualche sindaco.
— Politica, insomma, — aggiunge.
Sbuffo ancora, da un angolo della bocca, come una moca scorbutica.
— Proprio quello che non ti piace fare, — conclude.
La “pietà della gente” è cambiata, le spiego. Oggi, se un altro “irruente autocarro” maciulla i passanti, nessun paese chiama più i muratori. Fonda piuttosto un comitato per la tangenziale, raccoglie firme e fa un sit-in davanti alla prefettura. Fa politica, appunto.
Arriviamo. Prendo l’ultimo mazzo di fiori, il più bello.
La lapide è abbastanza pulita ma mi chino e, con un panno, tolgo via la patina di smog che la vela. Sistemo i fiori al posto di quelli che, ancora freschi, stavano a raggiera nel vaso di ottone.
M’inginocchio sulla lapide, poggiandoci contro i palmi delle mani. Avverto il gelo, quello che non avevo sentito per tutto il giorno, propagarsi dal marmo a me, fin dentro il cuore. Sento qualcosa ribollire nella gola. Vedo delle gocce cadere sul marmo: sono le mie lacrime.
— Papà, non piangere, — mi dice Silvia con il suo sorriso dolcissimo. Lo stesso che ha nella foto incastonata nel marmo di fronte a me. Il sorriso che avrà per sempre.
— Torna a casa, — aggiunge, — Tra poco sarà buio e non voglio che guidi di notte.
Tiro su col naso e mi rimetto in piedi. Ma prima sfioro la sua foto, una carezza appena accennata.
— Tu non vieni? — le chiedo.
— No, lo sai che il mio posto è qui.
Scuoto la testa, poco convinto.
— Tanto non gliene importa niente a nessuno, — continuo amaro, — Questi corrono come pazzi lo stesso, neanche la vedono la lapide e la tua foto, — aggiungo rabbioso indicando la statale.
— Lo so, ma devo restare comunque.
— Va bene, — dico rassegnato, accennando ad un saluto.
— Ci vediamo domani mattina, — mi dice quando sono già lontano alcuni passi.
Salgo in macchina e ritorno sulla strada. Faccio alcuni chilometri, piano, tra le macchine che sciamano impazzite, tra fari abbaglianti e clacson petulanti. Poi vedo un’autoambulanza sfrecciare nella corsia opposta, in un urlo di sirene agghiacciante. E prego. Prego tanto che non si fermi ancora una volta sul ciglio della strada