IL MISTERO DEL CIBO

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Due uomini e due donne stavano seduti attorno a un grande tavolo imbandito con cibi e bevande di ogni tipo. La stanza nella quale si trovavano era completamente buia. Non potevano distinguere nemmeno le pareti, solo una debole luce li illuminava. Si guardavano confusi a vicenda, con gli occhi di chi non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Regnava un gran silenzio.

 

Fu l’uomo in sovrappeso il primo a parlare.

«Scusate, ma…» disse con un filo di voce e tutta la confusione del mondo «…cosa ci faccio qui?» Fece una pausa, poi riprese con maggior vigore. «Chi siete voi?!»

Gli altri lo guardarono perplessi. Nessuno rispose. La donna sulla quarantina scosse il capo con un’espressione assente, mentre la ragazza giovane si toccò il viso come per accertarsi che non si trattasse di un sogno. L’uomo magro, invece, rimase immobile con lo sguardo perso nel vuoto.

Si guardarono attorno spaesati per una decina di minuti. Fu di nuovo l’uomo in sovrappeso a rompere il silenzio.

«Ora ricordo!» Esclamò all’improvviso. Tutti lo fissarono incuriositi. «Mi chiamo Jackob e ho 32 anni. Vivo nel Maryland e attualmente sono disoccupato…» parlava tenendo gli occhi rivolti verso l’alto, sforzandosi di ricordare. Fece una pausa e si accorse che tutti lo stavano guardando in attesa che continuasse. Allora Jackob abbassò il capo e, appoggiandosi una mano sulla tempia, iniziò a verbalizzare quello che gli passava per la testa.

 

Non chiedetemi perché, ma in questo momento ricordo me da piccolo, all’età di dieci anni, mentre sto sdraiato sul divano di casa. Ero un bambino estremamente pigro. I miei amici andavano sempre a giocare al parco il pomeriggio, mentre io rimanevo a casa a guardare la tv. Ogni mezzora mi alzavo, andavo in cucina e prendevo qualche cosa da mangiare. Una panino, uno snack o una bibita… non importava molto cosa mangiassi, l’importante per me era sentire il mio stomaco sempre pieno.

Ora mi vedo a quindici anni: ero già in sovrappeso di 20 chili. A scuola gli altri ragazzi facevano battute sulla mia stazza. Non era il massimo, ma almeno mi sentivo considerato. Non ero più invisibile come quando andavo alle medie. Tutti presero a chiamarmi “Big J” e io sentivo che per la prima volta avevo un qualcosa che mi differenziava dagli altri. Ero Jackob, il ragazzo grasso che alle cene di classe mangiava più di tutti. Jackob, quello con lo stomaco senza fondo. Mangiavo anche se non avevo fame perché gli altri si aspettavano questo da me. Ben presto divenni schiavo del cibo. Ero abituato a mangiare in continuazione e se stavo anche solo mezzora senza farlo il mio stomaco cominciava a brontolare. Non ero più io che consumavo il cibo, era il cibo che consumava me.

Ora la mia mente mi riporta agli anni del college. Ricordo che quando vi entrai ero talmente grasso da far fatica a camminare. In quel periodo le battutine della gente facevano male. Non erano più simpatiche come prima, erano taglienti, sussurrate tra i denti. Nessuno gradiva la mia compagnia e non riuscii a farmi neanche un amico. Le ragazze poi… per loro era come se fossi invisibile. Non mi vedevano come un uomo, forse nemmeno come un essere umano. Tra tutte probabilmente era questa la cosa che mi faceva soffrire di più.

Così un giorno decisi di lasciare il college. Tornai a casa dalla mia famiglia, determinato a trovarmi un lavoro. Feci decine di colloqui, andai negozio per negozio chiedendo se avessero bisogno di personale, ma nessuno voleva uno come me… un malato. All’ennesimo rifiuto gettai la spugna. Mi chiusi in casa e da diversi anni ormai passo le mie giornate senza fare niente. Ovviamente in questo modo la mia salute è peggiorata, adesso peso quasi 150 chili. Un anno fa ho scoperto di avere il diabete, ma…

 

Si interruppe di netto. Alzò il viso e guardando gli altri disse: «…perché vi sto raccontando queste cose?» Sul suo volto si palesò un’espressione preoccupata. «Come ci sono arrivato qui?»

Anche questa volta nessuno seppe rispondere.

Seguirono alcuni minuti di silenzio, poi fu la donna sulla cinquantina a prendere la parola.

«Ora ricordo anche io chi sono», disse in tono controllato. «Mi chiamo Claudia e…» Come successe per Jackob, anche lei cominciò a raccontare. Ricordava e parlava nello stesso momento, senza filtro, come se quella storia la stesse raccontando prima di tutto a se stessa.

 

…sono nata in un piccolo paesino nella periferia sud di Milano, in Italia. Sono dirigente in una grande azienda. Non sono sposata e vivo da sola.

La mia mente mi riporta a una cena con amici di qualche anno fa. Probabilmente era prima che iniziassi ad avere problemi di stomaco. Sono ormai anni, infatti, che non mangio più fuori casa, la mia dieta non me lo consente.

Sapete, ho preso centinaia di farmaci per curare la mia gastrite cronica, ma non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Poi un giorno ho capito che per stare meglio dovevo cambiare il mio modo di mangiare. Così ho iniziato a leggere centinaia di articoli sulla corretta alimentazione. Grazie a internet oggi puoi avere tutte le informazioni che ti servono senza fatica! Riuscii da sola a crearmi una dieta perfetta, eliminando quegli alimenti che potevano essere potenzialmente nocivi per il mio organismo. Ovviamente, per mantenere un tale regime alimentare, ho dovuto smettere di mangiare fuori casa. Non puoi sapere cosa ci mettono nel cibo nei ristoranti, non puoi calcolare gli apporti nutrizionali o il giusto bilanciamento tra proteine e carboidrati.

Sapete, ora sto meglio! Da tre anni non mangio più nulla che non sia strettamente previsto dalla mia dieta. Ho perso molti degli amici che avevo, ma loro non mi capiscono, dicono che sono ossessionata, che non è più piacevole stare con me.

Adesso però ricordo che ultimamente non sono stata molto bene. Mi sento sempre stanca e anche al lavoro faccio fatica a tenere il ritmo. Una volta mi è anche capitato di svenire sul treno mentre tornavo a casa. Faceva molto caldo quel giorno, sarà stato sicuramente per quello. Però mi sono preoccupata così ho deciso di andare dal mio medico. Ho fatto delle analisi del sangue e alcuni valori sono risultati bassissimi. Il ferro era praticamente a zero. Quando ho raccontato al mio medico della dieta speciale che seguivo lui si è infuriato. Io ho fatto valere le mie ragioni e lui, per tutta risposta, mi ha detto che avevo bisogno di uno psicologo, che ero malata. Ha usato un’espressione… ah sì, ha detto che sono “ortoressica”. Che cavolata! Si sa che i medici di base non capiscono niente.

Va beh… alla fine mi ha prescritto degli integratori alimentari e mi ha esortato a mangiare alcuni alimenti che fanno malissimo! Mi ha anche fatto un’impegnativa per andare da un dietologo, ma io non ci sono andata.

Così la mia vita continua come prima, anche se a dire il vero mi sento uno straccio. Però sono sicura che si tratta solo di un momento di debolezza, capita a tutti. L’ultima cosa che ricordo è che sono uscita di casa per recarmi al lavoro, ma… come ci sono finita qui?

 

Anche Claudia terminò la propria storia con un’espressione confusa e preoccupata. Questa volta il silenzio durò solo pochi secondi perché a prendere la parola fu subito la ragazza più giovane.

«Mentre parlavi mi sono ricordata anche io chi sono».

«Cos’è questo? Il circolo degli smemorati», commentò ironicamente Jackob.

Nessuno però sembrava essere dell’umore di scherzare, così la ragazza continuò.

 

Mi chiamo Alina e sono nata in Russia, anche se i miei genitori sono rumeni. Nemmeno io ricordo come sono arrivata qui, però ricordo alcune cose di me. Ho 22 anni e frequento l’università di Mosca. Non so perché, ma ho in testa un ricordo ormai vecchio di due anni. Si tratta di un episodio triste della mia vita perché fu quando il mio ragazzo mi lasciò. Per me fu un duro colpo. Stavamo insieme dalle medie e avevamo già iniziato a progettare una vita insieme. Quando me lo disse lui aveva già un’altra, una modella a quanto pare… alta, bionda e magrissima. Quel giorno la mia vita crollò. Smisi di dormire e di mangiare. Non piangevo, a vedermi dall’esterno non sembravo nemmeno tanto triste. In realtà nemmeno io mi sentivo triste, semplicemente tutto aveva perso di senso.

A quel tempo pesavo 57 chili e non mi preoccupavo particolarmente del mio aspetto fisico. Tuttavia, in quel momento, quando vidi il mio ex ragazzo con la sua nuova fidanzata, in quel preciso istante realizzai quanto ero stata cieca. Pensavo di essere giusta, invece ero grassa, grassa da far schifo! Era ovvio che mi avesse lasciato… sembravo una balena! Sarei rimasta da sola tutta la vita se non mi fossi data una regolata, così iniziai a mangiare solo una volta al giorno. Un pasto è più che sufficiente. In poco più di tre mesi persi 10 chili. Ero tanto orgogliosa di me ogni volta che salivo sulla bilancia e vedevo quella dannata freccia fermarsi ben prima dei cinquanta chili. Avevo fame, non lo nego. A volte avrei ucciso per un panino. Però ho resistito. L’autodisciplina è tutto se si vuole avere successo nella vita. Io voglio sposarmi, avere dei figli e un marito che mi ami e non guardi le altre donne solo perché io sono grassa. Insomma, finalmente mi vedo bella. Lo specchio non è più un oggetto da evitare. La gente per strada non mi guarda più il sedere pensando “ma questa quanto mangia?”. Perché lo so che lo pensavano…

Ora sono arrivata a pesare quasi quaranta chili e non ho più fame. Anche tutto questo cibo che abbiamo qua sul tavolo non mi fa nessun effetto. Se mi sento debole mangio un po’ di frutta, ma non troppa perché è piena di zucchero.

Insomma, la mia vita va molto meglio ora, anche se non ho ancora trovato un ragazzo. Però adesso che son magra mi sento più fiduciosa e posso vestirmi come voglio. Mi entra tutto, anche le magliette per bambini!

 

Dicendo questo si alzò in piedi per mostrare la maglietta che stava indossando. Solo in quel momento gli altri notarono quanto fosse magra. Sembrava uno scheletro. Sotto la maglietta attillata spuntavano le costole e le spalle appuntite. I jeans stretti le danzavano in vita. Alina, con un sorriso stampato in volto, fece un giro su se stessa e si rimise a sedere. Poi, tutto ad un tratto, tornò scura in viso ed esclamò «Ma chi siete voi? Perché vi sto raccontando queste cose?» Fece una pausa. «Cosa ci facciamo qui?!»

Nessuno sembrava avere una risposta a quella domanda e per l’ennesima volta calò il silenzio.

«Beh, intanto che aspettiamo che qualcuno ci venga a dire perché siamo qua io mangerei qualcosa», disse Jackob allungando la mano su un hamburger posto di fronte a lui.

«Hai ragione» replicò Claudia, «mi è venuta un po’ di fame».

Anche Alina prese a piluccare da un’insalata alcune foglie. Sul tavolo c’era talmente tanto cibo che non lo avrebbero finito in una settimana.

 

«Io mi ricordo come sono arrivato qua».

 

All’udire quelle parole un brivido corse lungo la schiena di tutti. A parlare fu l’uomo che sinora si era mantenuto apparentemente in disparte. Era passato talmente inosservato che tutti si erano dimenticati persino della sua presenza.

Lo fissarono in attesa che continuasse e lui, questa volta, non si fece desiderare.

 

Ho ascoltato le vostre storie con molto interesse e ho capito cosa significa questo luogo, cosa ci facciamo qua. Non credo passerà molto tempo prima che lo realizziate anche voi, quindi permettetemi di raccontarvi qualcosa su di me.

Mi chiamo Owen. Sono nato e cresciuto in Kenya. Non ho molti ricordi della mia infanzia. Ho impresso nella memoria il volto giovane di mia madre, l’odore dei campi e quello del vento gelido che soffiava la notte. Ricordo i banchi di scuola e i maestri volontari che ogni giorno ci raccontavano qualcosa sul mondo.

Insomma, ho un bel ricordo della mia infanzia e anche se crescendo è cambiato tutto, una cosa non mi ha mai abbandonato, è stata con me dal primo giorno: la fame. Fin da piccolo sono stato abituato a mangiare poco, eppure alla fame non ci si abitua mai. Eravamo in tanti nel mio villaggio e bisognava dividere il cibo tra tutti. Io ero fortunato perché mia madre spesso si privava della sua porzione per darla a me. E’ a lei che devo tutto.

La mia esistenza è stata una costante battaglia tra la vita e la morte. Sapevo che se mi fossi ammalato non ci sarebbero state cure. Bastava una piccola infezione per far preoccupare tutti. Ero debole e mi capitava spesso di svenire. Mia madre cercava di non farmi mancare niente, ma la sentivo piangere la notte e leggevo nei suoi occhi la frustrazione dell’impotenza. Vedeva suo figlio morire, giorno dopo giorno, e non poteva fare nulla.

Eppure non rimpiango niente della mia esistenza. Ho amato tutto della vita. Ho amato il piacere e il dolore, il gelo e il caldo abbraccio del sole, la sofferenza e la gioia. Sapete, io penso che nella vita tutto si compensi. Più soffri e più apprezzi i momenti felici, più piangi e più i tuoi sorrisi saranno magnifici. Allo stesso modo, se hai conosciuto la fame apprezzerai il sapore del cibo e l’incredibile magia che esso nasconde. Perché nel cibo è racchiuso il mistero stesso della vita. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Sono domande arroganti. L’errore fondamentale di noi uomini è quello di crederci un qualcosa di speciale, separato dal resto del mondo. Pensiamo di essere fatti di qualche sostanza strana, magica. Ci sbagliamo… noi siamo il cielo, siamo la terra, siamo i fiumi e gli alberi. Siamo gli occhi attraverso cui l’universo prende consapevolezza di se stesso. Siamo ogni cosa ed ogni cosa è noi. Pensateci, come fate a dire che quella mela non siete voi, se poi la mangerete e diverrà parte di voi. Nel processo tramite cui il cibo da oggetto esterno diventa parte del nostro essere c’è la risposta a tutte le nostre domande. Cosa ci separa dal mondo se non il nostro ego? Il nostro sentirci essere speciali? Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui è fatto il mondo. E’ questo il mistero che il cibo ci svela ogni giorno, ogni volta che lo mangiamo.

 

Fece una pausa e si accorse che tutti lo stavano fissando intensamente. «Giusto… voi volete sapere cosa ci facciamo qui. Ho ragione?»

Gli altri risposero con un cenno di assenso. Nessuno emise un fiato.

Owen sorrise. Un sorriso difficile da interpretare.

«All’inizio anche io non ricordavo», disse. «Ho ascoltato le vostre storie con grande interesse e solo quando anche l’ultimo di voi ha pronunciato l’ultima parola, solo allora ho ricordato. Vi dirò come sono arrivato qui».

 

Il tavolo era rotondo.

 

«Ricordo chiaramente di essere uscito di casa per cercare qualcosa da mangiare. Era sera. Mi sentivo particolarmente debole».

 

I posti a sedere assegnati casualmente.

 

«Non mangiavo niente da una settimana».

 

C’era del cibo sul tavolo.

 

«Mentre camminavo ho sentito le gambe farsi pesanti…»

 

Non su tutto il tavolo.

 

«…ho iniziato a vedere doppio…»

 

Dove era seduto Owen non c’era nulla.

 

« …sono caduto a terra».

 

Nessuno se n’era accorto.

 

«E poi… eccomi qua».

 

In quel preciso istante tutti compresero. La luce si spense e fu buio.