HAI MANGIATO?

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Tra noi è iniziato con parole piccole, quasi senza intenzione. Raccontarci delle nostre vite prima, delle cose che amiamo, di quello che ci costano fatica, di libri, di film, il più e il meno insomma. Poi il meno è diventato ogni volta di più, più intenso, più minuto, composto di parole grandi, dei sogni e dei desideri, delle amarezze e dei dolori; e di parole piccole che toccavano il quotidiano spiccio, l’istante che, ancora non sapevamo, avremmo voluto condividere. Così ho imparato del tuo lavoro, dei tuoi amici, della casa in cui vivevi e dei suoi angoli, del fiume lungo cui camminavi e della sua luce scintillante, della montagna aspra e puntuta sopra la tua città, dell’ora in cui ti alzavi, della luna sul terrazzo. E spesse volte di ciò che cucinavo io, o tu. Descriverti un piatto e confrontare la ricetta, gustare a distanza e nello stesso momento il sapore dello stesso vino, a volte chiamarsi solo per dirsi “ho mangiato per la prima volta le ciliegie!”  oppure “ieri al mercato ho trovato uno scorfano meraviglioso”, raccontarci una cena tra amici o in un ristorante speciale era diventato indispensabile. È stato a quel punto che hai cominciato a chiedermi “quella cosa”, un fatto di cui ho tanto sorriso fra me all’inizio, e nel quale mi sono tanto sentita presente a te poi, perché era un’attenzione che si riserva solo a chi sta costantemente nei pensieri. Mi chiedevi “hai mangiato?”, con una così intima confidenza che mi faceva commuovere. E mentre io ci scherzavo, tu mi dicevi che era il tuo modo per dirmi che avresti voluto avessi cura di me, e che quei pasti avresti voluto dividerli con me. Tempo dopo ho trovato una citazione di Elsa Morante che diceva così: “La frase d’amore, l’unica, è:  hai mangiato?”. Quello stesso giorno ascoltando la tua domanda, ti ho risposto “anch’io ti amo”. Tu hai fatto silenzio per un istante, e mi hai risposto “era ora, è un po’ che aspettavo!”.

La nostra vita insieme è iniziata così. E il primo giorno nella nostra casa è sorto all’alba con del pane impastato insieme, e la prima gita fu al caseificio in collina dove mi hai fatto gustare una treccia di mozzarella appena fatta, tiepida e succosa, strappandone i pezzi con le mani e pulendomi le labbra sporche di latte. Nutrirsi l’uno dell’altro passa anche da qui, per noi, assaporando tutto. Adesso sono qui a casa, immersa nei ricordi sotto il pergolato, e so che devo preparare la cena, perché arriva il momento più denso di ogni giorno, quello in cui lo sguardo si reincontra nella quiete di una cucina.

È quasi ora, anche se non ho il senso del tempo da un po’. Scivolo intorno al tavolo, allargo le braccia e la tovaglia scende come una medusa delicata, fluttua un attimo e poi si placa. I piatti fanno un rumore felpato mentre li poso, calcolo la distanza tra uno e l’altro perché sia vicinanza, odio la simmetria asettica. Ci metto questi bicchieri diversi, perché non sia mai dato che siamo identici e così possiamo bere lo stesso vino, ma in disparate corolle. C’è un fiore solo, gonfio e tumido, l’ultima peonia fiorita qui fuori, pallida come una conchiglia tropicale, soffice come la vena che sta già pulsando sul collo. L’ho messa su una foglia arricciata di lattuga, come se bello e buono fossero complementari. La tazza bianca con le ciliegie accecanti di sole è lì accanto, mentre il pane tiepido sopisce in un canovaccio rosso ripiegato come un nido.  Intingo il dito nel siero della mozzarella, in un gesto istintivo, e lo succhio. È salato e acido, e mi fa pensare a un bacio lento, e sta così bene vicino alla bottiglia di olio che sembra ottone trasparente e riflette bolle dorate sulla tavola. Il sole sta calando, la luce è morbida in modo sfibrante. Ho messo il vestito nero, ma i piedi sono scalzi; ho raccolto i capelli lasciando ciocche sulla fronte, perché ci sia quel tuo moto abituale che spinge le mani a spostarle per vedere i miei occhi. Ti aspetto, non tardare.