DASHI MILANESE

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Dalla terrazza si poteva distinguere la sagoma del monte Fuji con le sue cime perennemente innevate. La montagna sacra che tutto conosce e tutto domina; il solitario vulcavo divenuto simbolo di purezza e superiorità divina.

Hiroshi, assorto in una profonda meditazione, ne percepiva il profumo dell’aria fresca, l’aroma intenso  dei larici giapponesi che ricoprivano il versante nord ovest della montagna, la fraganza dei cedri e degli aceri più a valle.

Il ritmo cardiaco rallentato aveva condizionato la sua respirazione a soli due cicli al minuto ed in quei  gesti di inspirazione e lenta espirazione lui stava inalando la storia del Giappone, si stava nutrendo di  quelle molecole d’aria che per millenni i suoi avi avevano respirato in un eterno ciclo di vita, morte e  rinascita.

Ogni cellula del suo corpo, apparentemente inerte, era totalmente consapevole e si sentiva parte integrante di quell’energia che pervade l’universo e di cui ogni essere vivente è partecipe.

Percepiva ogni creatura nella foresta attorno alla sua villa: le volpi e gli scoiattoli immersi nel verde dei  boschi, il lento incedere dei capricorni così timidi e timorosi nei confronti dell’uomo.

Era mille anni distante dal presente ed allo stesso tempo totalmente in relazione con ogni cosa che lo  circondava. Il suo cuore pulsava con il creato.

Il rumore della suoneria del cellulare lo riportò alla realtà.

Aprì gli occhi e si alzò lentamente apparentemente senza muovere un arto, come se il suo corpo  lievitasse  in posizione eretta avvolto dai pesanti abiti della tradizione shintoista.

Ascoltò la voce metallica all’altro capo del telefono.

-Va bene, sarò a Milano dopodomani –  fu l’unica sua risposta.

Il compenso previsto era il medesimo: 50 mila dollari e tutte le spese pagate per un paio di giorni di  lavoro al massimo. Entro pochi minuti gli sarebbero arrivate via fax tutte le informazioni necessarie per  eseguire il lavoro ed i biglietti aerei.

Pensò che prima di partire voleva mangiare qualcosa. Sarebbe stato difficile prepararsi un buon brodo  dashi con verdure nella capitale industriale d’Italia.

Hiroshi, anche nel suo paese, raramente andava al ristorante.

Non si fidava della qualità degli alimenti che gli proponevano i “mercanti di cibo”.

Cucinava sempre per se stesso seguendo i dieci precetti della cucina zen che suo nonno e suo padre gli  avevano tramandato.

Gli sarebbe piaciuto avere una moglie che cucinasse per lui, ma per il momento il lavoro gli impediva di  avere una compagna.  Forse un domani, quando si sarebbe ritirato a vita privata.

 

 

Gli schamazzi nel locale erano assordanti. I ragazzi dalle teste pelate avevano bevuto parecchia birra e  cantavano canzoni tedesche degli anni ’40 imparate in maniera dozzinale sui siti internet di propaganda  nazista. Nessuno di loro sapeva il tedesco.  Il più colto del gruppo era Carlo, soprannominato roccia, che  aveva a stento terminato la terza media.

Franz non ci era riuscito: lo avevano bocciato due volte in prima e due in seconda e poi l’avevano  espulso dall’istituto per aver mandato all’ospedale il prof. di matematica.

Nel pub gli altri avventori erano usciti quando loro erano entrati e quei pochi che erano rimasti facevano  finta di nulla, uno sguardo sbagliato e sarebbe stato un prevedibile pestaggio.

Era gente che non ci pensava due volte a menar le mani quella, soprattutto quando il tasso alcolico   aveva superato il livello di guardia.

– Allora ragazzi volete altro? Tra poco devo chiudere… –

– Dai zio Adolf – così i ragazzi chiamavano sbeffeggiandolo Arturo il gestore del pub-  sono solo le  due di notte. Non romprere le palle e portaci ancora tre piatti di stinco con crauti e senape ed un giro di

birra per tutti –

Il barista obbedì senza ribattere, sapeva che non gli sarebbe servito a nulla protestare.

– Allora che cazzo facciamo domani? – chiese Luca al capo branco dopo aver tirato un fragoroso rutto.

-Direi di fare un po’ di movimento- rispose Franz – anche per smaltire tutto quello che abbiamo  ingurgitato stasera…-

Tutti risero sguaiatamente aprendo le bocche piene di carne di maiale e patate masticate.

Quando il capo parlava di “movimento” non si riferiva certo ad una seduta di fitness o ad una partita a Squash in palestra.

-Potremmo fare un giro fuori da qualche centro sociale e dare una bella lezione a qualche “bolscevico”,

oppure andare a salutare gli amici colorati al centro di accoglienza?-

-E’ un po’ che non facciamo visita ad un bel campo rom, l’ultima volta avevamo fatto un bel falò? Ve lo ricordate che sballo di serata era stata?-

Quella sera si erano proprio divertiti e per poco non ci scappava il morto abbrustolito in roulotte.

L’onorevole Cisputi quella volta si era incazzato con Franz. Lui gli parava il culo perchè aveva ancora

parecchia influenza politica nel centro detra, ma se fosse andata peggio non avrebbe potuto evitare

una bella indagine della Polizia.

Comunque anche l’onorevole non poteva fare troppo il santarellino. Parecchie volte si era servito dei nazi per sistemare delle faccende private o per fare qualche piccolo attentato e se rompeva troppo il  cazzo Franz lo avrebbe sputtanato spifferando tutto al primo giornale di sinistra disponibile a pagare qualche soldo.

Lui lo teneva per le palle il parlamentare e lo tollerava nei suoi sfoghi isterici solo perchè una volta era  stato un grande camerata, uno di quelli che negli anni 70 giravano armati e non ci pensava due volte  quando c’era un cranio di un compagno da fracassare.

-Domani decideremo casa fare, adesso pensiamo a divertirci-

Il gestore del pub stava arrivando con due grossi piatti di carne grassa e salsicce.

-Adesso vi porto anche le birre ragazzi-

– Bravo zio Adolf – disse Benito dandogli una bella manata sulle spalle.

 

 

Tutti i prodotti che Hiroshi cucinava glieli portava direttamente a casa il suo giardinire.

Il vecchio Huzumi era da più di 50 anni al servizio della sua famiglia ed oltre a curare le piante  ornamentali del giardino, si occupava dell’orto, della coltivazione dei funghi e delle vasche con le alghe. Aveva quasi 80 anni e viveva, da quando Hiroshi ne aveva ricordo, nella casetta vicino all’ingresso della

villa.

La sua regola era che tutti gli alimenti dovevano essere prodotti in maniera naturale, nessun

fertilizzante o conservante era ammesso e  verdura e alghe dovevano essere freschissimi per mantenere

interamente il loro valore nutritivo.

La cucina di casa era grande, ordinata e minimalista. Un perfetto equilibrio di mobili color ebano e  tavoli e ripiani di marmo grigio, con al centro un’isola cottura sovrastata da 5 fuochi ad induzione in vetro ceramica.

Molto diversa da quella tradizionale in cui suo nonno materno gli aveva insegnato i primi rudimenti della  cucina zen.

Del cibo ci si doveva occupare fin dal mattino, secondo i ritmi ed i tempi imposti dalla natura. Alcuni  alimenti richiedevano lunghe preparazioni e macerazioni prima di essere cotti. Le sostanze dannose per

l’organismo dovevano decantare mentre quelle utili dovevano concentrarsi per sprigionare il massimo dell’energia positiva.

Bisognava nutrire l’anima allontanando le passioni oscuranti, quindi nè carne nè pesce erano ammessi  perchè implicavano un’alterazione dell’armonia cosmica;  e nemmeno aglio e cipolla erano usati perchè  portatori di sapori troppo decisi.

Il cibo andava preparato senza preoccuparsi del tempo che passava. Un buon brodo dashi richiede ore di  preparazione ed una volta pronto va consumato con calma per assaporarne a pieno il gusto.

Il riso è il miglior piatto per purificare l’anima, non ha bisogno di profumi o aromi aggiuntivi. E’ un cibo  puro e perfetto che va ben lavato e cotto con delicatezza.

Suo nonno diceva sempre che in cucina nulla va sprecato: “ i semi del peperone che vengono tolti  possono essere usati nella composizione delle frittelle, le foglie del sedano staccate dal gambo usate per  fare una tempura, le bucce degli ortaggi essiccati al sole sono ottimi per fare un buon brodo, con il  gambo dei broccoli ci si può cucinare una crema.

Addirittura, l’acqua di risciacquo del riso può essere usata per lessare le verdure, non la prima acqua: il primo lavaggio la rende troppo torbida, però anche questa non va buttata, ma usata per innaffiare le piante…a loro piacerà”.

I pasti vanno sempre preparati pensando alle persone care che ci hanno insegnato l’arte della cucina e alle persone che avremo come ospiti a pranzo o cena, questo ci permetterà di mettere amore in quello  che facciamo ed infondere gioia negli spiriti dei nostri commensali.

Se un piatto non ci è venuto come volevamo non ci si deve arrabbiare, ma considerare l’esperienza  negativa come un’opportunità di riflettere sul nostro operato e permettere di migliorarci.

Suo padre diceva che tutti gli ingradienti vanno lavorati a mano. Bisogna trasmettere al cibo i propri  sentimenti tramite le mani e la lavorazione lenta e manuale calmerà anche la nostra anima.

Bisogna sempre sistemare e pulire la cucina dopo aver preparato il cibo, è un esercizio di ordine fisico e  mentale che predispone all’armonia e bisogna sempre onorare il cibo che si mangia e coloro che l’hanno coltivato permettendoci di gioirne.

Ogni volta che Hiroshi trascorreva il suo tempo in cucina ripeteva come un mantra i dieci insegnamenti zen trasmessigli da suo padre e dal padre di suo padre, pensando che un giorno forse anche lui avrebbe avuto un erede a cui insegnare questi importanti precetti.

 

 

Alle quattro di notte le teste rasate uscirono dal pub in viale Isonzo. Un paio del branco a fatica si reggevano in piedi a causa delle birre bevute.

Altri schiamazzavano cantando in un tedesco biascicato ed incomprensibile.

-Allora Franz, che facciamo domani?-

-Vediamoci a casa Pound alle tre del pomeriggio e poi decidiamo, adesso non ho voglia di pensarci- tagliò corto il capo.

-Ok, allora a domani-

Il gruppo si sparpagliò ed ognuno prese a camminare verso casa.

Franz abitava a pochi isolati. L’aria iniziava ad essere fresca e gli venne voglia di pisciare dopo tutta la

birra che aveva bevuto.

Si infilò in una viuzza buia e si avvicinò al muretto tra due auto parcheggiate a bordo strada.

Aveva la vescica e la pancia piena. Avevano fatto proprio una bella mangiata di carne e crauti.

Zio Adolf lo faceva proprio bene lo stinco ed anche le salsicce con le patate non erano male.

Adesso aveva solo voglia di farsi una bella dormita.  Sarebbe rimasto a letto fino a mezzogiorno alla faccia di tutti quei coglioni che dovevano lavorare per vivere.

Lui non navigava certo nell’oro, ma con l’assegno che gli passava l’onorevole per farlo stare zitto  sopravviveva dignitosamente e qualcosina la guadagnava anche come capo curva ultras a San Siro.

Mangiare, bere, menar le mani, dare qualche lezione a zingari ed estracomunitari ed andare allo stadio  la domenica. Non era male la sua vita. Non si poteva certo lamentare.

Se lo stava scrollando quando sentì come un soffio di vento alle sue spalle e vide un’ombra proiettata sulla parete.

Se era qualche frocio di merda che voleva guardagli l’uccello si sarebbe proprio divertito a prenderlo a calci nelle palle.

Si tirò su la cerniera. Gli anfibi erano belli lucidi e pronti a colpire.

– Adesso ci divertiamo a fracassare qualche osso – pensò girandosi con aria spavalda.

Non si aspettava certo di vedere quello che vide. Un cazzo di asiatico alto un metro e mezzo vestito con una palandrana nera e bianca che lo fissava con sguardo inespressivo.

Riuscì solo a dire “… che cazzo vuoi frocio di un muso giall…” che una lama di katana gli tagliò di netto la carotide uccidendolo in pochi secondi.

 

 

 

Il volo per tornare al suo paese era partito in perfetto orario da Malpensa.

Sul comodo sedile in pelle della business class Hiroschi stava sfogliando un quotidiano italiano.

Nelle pagine della cronaca milanese vide la foto del ragazzone pelato in bomber ed anfibi sdraiato a  terra e parzialmente coperto con un lenzuolo bianco, probabilmente steso per pudore dalle forze dell’ordine prima dell’arrivo dei fotografi.

Il titolo dell’articolo, per lui incomprensibile, recitava “Regolamento di conti tra estremisti poltici” e nel sottotitolo era indicato “Trovato accoltellato Francesco Scotti leader dei naziskin milanesi. Gli inquirenti ipotizzano una vendetta dei centri anarchici lombardi”.

-Desidera qualcosa da bere signor Hiroschi?-

-Un centrifugato di carote- rispose in perfetto inglese l’uomo all’hostess.

Seduto sulla sdraio a bordo piscina l’onorevole Cisputi si godeva l’ultimo sole di settembre nella sua villa

in Brianza.

Aveva appena finito di leggere il giornale.

Le cose stavano prendendo la piega desiderata. I sospetti erano chiaramente ricaduti sui centri sociali della sinistra antagonista.  Ci sarebbero state delle manifestazioni per ricordare il commilitone caduto,  qualche tafferuglio con gli anarchici e poi tutto sarebbe tornato alla normalità.

L’idea di far fare il lavoro ad un professionista straniero era stata geniale. Gli era costato un po’, ma nessuna prova e nessun indizio sarebbero stati trovati e lui ne sarebbe uscito pulito come sempre.

Quel Franz del resto aveva rotto il cazzo, sempre a chiedere soldi, sempre a far casini e poi a pretendere protezione “perché lui sapeva cose importanti e pericolose.

L’onorevole Cisputi non si fa prendere per le palle da nessuno, tantomeno da un naziskin nostalgico e semianalfabeta che sperava ancora nel ritorno del Reich.

Adesso era il momento di far soldi a palate: soldi con l’assitenza, con la gestione dei centri di  accoglienza, con gli appalti pubblici, con l’emergenza profughi.

La vecchia volpe ritornava in pista. Ne aveva viste di tutti i colori, dalla lotta armata alla militanza nel Fronte della Gioventù. Ora era arrivato il momento di far fruttare il capitale con gli interessi, era il momento di portare a casa un bel gruzzoletto per la vecchiaia.

-Marisol, portami un mojito per favore-

-Subito signore- rispose la cameriera peruviana.

Erano solo le 10:30 del mattino, ma l’onorevole aveva voglia di festeggiare.