Non appena giunti a Stresa, volemmo subito visitare le isole: e mangiato in fretta un panino nel primo bar capitato a tiro, ci recammo all’imbarcadero. Qui ci facemmo convincere da un tizio incontrato sul molo: per diecimila lire, questo bel tipo (che Dora, poi, ricordò d’aver visto giungere in Kawasaki, entrare tutto azzimato in un cabinotto ed uscirne in uniforme bianca, col cappello dei traspor-tatori lacustri) ci fece accomodare su un motoscafo e in un baleno ci lasciò all’i-sola dei Pescatori, con l’intesa di venirci a riprendere l’indomani mattina alle dieci. Fu un signore seduto sugli scalini di quel moletto a dirci della presenza di un traghetto comunale, che effettuava servizi ogni ora e per l’andata e ritorno costava un quinto di quella somma: egli per l’appunto lo stava aspettando, essendo in arrivo dall’isola Bella.
Mi diedi dello stupido. – Sono cose che succedono, quando si visitano luoghi che non si conoscono – mi giustificò lui. – Per vostra fortuna non siete stranieri: altrimenti chissà quanto vi avrebbe spillato.
Quei soldi tanto mal spesi incidevano sulle nostre economie di viaggio. – E adesso? – mi chiedevo sconcertato. – Coi prezzi visti in giro, stasera non potremo certo sollazzarci seduti a qualche buona tavola.
Dora taceva. L’aver preso un bidone ci crucciava oltremodo. Eravamo in gi-ta, avevamo a disposizione quattro giorni per visitare i due grandi laghi piemon-tesi, e il desiderio di vedere più posti – che contrastava penosamente con le esi-genze della borsa – ci spingeva a non fermarci più di una notte in ogni luogo di sosta. Ventidue anni io, diciotto Dora, alla nostra prima ‘scappata’ guardavamo a quei laghi, e al Piemonte, come a una sorta di Eldorado dove vivere inedite emo-zioni per consolidare il sentimento che ci legava.
L’albergo, il Verbano, l’avevamo in pratica davanti agli occhi: un grazioso edificio a due piani dai caratteristici muri rosso mattone con gli spigoli bianchi. Era invitante, e si rivelò confortevole. Aveva una curiosa particolarità: le camere erano contraddistinte, oltreché dal numero, dal nome d’un fiore. Quella che ci as-segnarono – la n° 14, Campanula, al secondo piano – era certo una delle migliori: è vero che dall’interno la porta si serrava solo col ferretto e che i rubinetti del piccolo bagno facevano bizze per l’acqua calda, ma la stanza da letto godeva di una splendida vista del lago Maggiore, grazie alle tre finestre che, nella zona giorno, offrono una visione da est a nord-ovest, con la sponda lombarda a levan-te e quella piemontese a ponente. Allora tuttavia non ci facemmo molto caso: erano le due pomeridiane e il già forte sole di maggio batteva a picco sull’acqua, disturbando lo sguardo.
Posato il bagaglio, uscimmo quasi subito per dare un’occhiata al luogo. L’i-sola, piuttosto stretta, lunga sui trecento metri e piatta come una sogliola, a quell’ora non offriva particolari attrazioni: notammo un’antica parrocchiale e ci per-demmo in un intrico di viuzze che portavano alla panoramica spianata settentrio-nale. Ma il sole era implacabile. Cosa fare? Tornammo dall’altra parte e sedem-mo a sorseggiare qualcosa nel bar dell’albergo, sotto l’ombra confortevole di un grazioso pergolato presso l’imbarcadero.
Dopo un po’, si accostò il traghetto comunale che giungeva da Stresa, diretto all’isola Bella: decidemmo di prenderlo, e corsi in camera a recuperare la mac-china fotografica. Dall’una all’altra isola ci saranno cinque-seicento metri d’ac-qua: avevo l’opportunità di scattare qualche bella immagine in navigazione, e mi detti subito da fare.
Quando sbarcammo là, fu giocoforza seguire la scia e intrupparci coi turisti in visita a Palazzo Borromeo. Ci costò anche questa, ma almeno ne valse la pe-na: io rimasi colpito dalle curiose sale sotterranee con pareti di tufo, Dora dai pavoni e dai bellissimi giardini. Prima d’imbarcarci per tornare sull’isola dei Pescatori, ci facemmo scattare una foto da un ragazzo anch’egli in attesa del traghetto.
Una volta tornati a terra, alle cinque e qualcosa, sedemmo sugli scalini del moletto. – Abbiamo già speso ben più di quanto era nei piani – dissi a Dora. – Di questo passo, per non rientrare prima, l’ultima notte ci toccherà dormire sotto qualche ponte…
Ma da ragazza pratica qual era, lei riconsiderò ogni somma spesa, le addizio-nò, trasse il totale, poi verificò quanto ci restava in tasca. – Esageri un po’, come al solito – affermò infine. – Una cosa è certa: dobbiamo allontanarci subito da questo lago, che è la zona più turistica del Piemonte, e perciò la più cara. – Con-sultò la carta automobilistica del Touring Club che avevamo e propose: – Facciamo così: domattina, tornati a Stresa pigliamo subito la funivia per il Mottarone; una volta in vetta, in corriera o in autostop scendiamo fino ad Orta San Giulio, che dista una ventina di chilometri, e pernottiamo lì. Vedrai che sul lago d’Orta i prezzi non sono proibitivi.
L’idea mi piacque. Restava da decidere sulla serata che ci attendeva, giacché la forza del sole si era già sensibilmente attenuata.
– Non possiamo buttare altri soldi in giro.
– Certo che no – concordò. – Soltanto… Devi farmi controllare una cosa. Fac-ciamo un attimo un salto in camera.
Salimmo. La stanza era in completa penombra, perché prima di scendere, per evitare il calore, lasciando i vetri accostati avevamo chiuso le gelosie delle fine-stre e serrato le tende.
– Lascia così e non accendere: ci vedo benissimo – disse lei. Andò verso il pancone dove avevamo posato le borse, aprì la sua e v’infilò una mano, restando un po’ lì a tastare; finché disse: – Sì, ricordavo bene.
Non afferravo il senso, ma Dora non sembrava disposta a delucidarmi. Ri-chiuse la borsa e tornò verso di me: – Dobbiamo ancora scendere un attimo, per una spesuccia.
La guardai interrogativo, ma non aprii bocca. Lasciammo la stanza e scendemmo. Fuori, ella si diresse verso l’intrico di viuzze percorse qualche ora prima, ed io le tenni dietro. Si guardava attorno. – Ah, ecco – disse, scorgendo un a-nonimo negozietto di generi alimentari.
Entrammo. Alla vecchina al banco Dora domandò una bottiglia d’acqua mi-nerale («Qui costano meno», mi sussurrò mentre la signora la prendeva dal frigo); poi scelse sei grosse mele e un paio di arance tra la frutta che faceva bella mostra di sé nelle cassette davanti all’ingresso. Spendemmo poco.
– E adesso? – le chiesi non appena fummo di nuovo all’aperto.
– Possiamo rientrare – annunciò con buffa aria serafica.
Immaginai che avremmo trascorso la serata a sbocconcellare frutta; non era una prospettiva allettante, ma occorreva fare di necessità virtù. D’altronde, l’idea del Mottarone programmata per l’indomani mattina m’aveva rimesso di buon u-more.
Così tornammo in albergo.
– Apri tutte le finestre: ora questa stanza ha bisogno di luce – mi disse lei appena in camera, andando a chiudersi in bagno.
Mi detti subito da fare, e, meraviglia!, in breve mi si parò dinanzi uno spetta-colo da mozzare il fiato: da levante a ponente, quanto lo consentiva l’ampio oriz-zonte dello sguardo, nella tenera luce tardo-pomeridiana che definiva i contorni, oltre l’azzurro specchio d’acqua del lago si profilava una magnifica chiostra di alte colline in un’alternanza di toni grigio-verdi: la sponda lombarda di Laveno, poi la punta di Verbania, quindi la vicina sponda di Baveno, dietro alla quale, più discosta e imponente, si scorgeva la sommità del Mottarone.
Non potevo esimermi dallo scattare qualche foto, e presi la mia Bencini. Nel frattempo, Dora era uscita dal bagno e si asciugava le mani con una salvietta.
– Che splendore, vero? – disse, insolitamente allegra.
– Valeva la pena venire quassù. Anche se ci aspetta una cena a base di mele e arance – commentai lievemente ironico.
Lei non raccolse; mi chiese: – Sai mantenere una promessa?
– Che promessa?
La guardai. Mi fissava sorniona.
– Sì o no?
– Se non è qualche brutto scherzo…
– Nessuno scherzo.
– Di cosa si tratta?
– Ti piace il panorama? Bene, devi promettermi di restare qui affacciato sen-za muoverti, e soprattutto senza voltarti, finché non te lo dirò io.
– Ehi, ma tu cosa vuoi fare?
– Prometti o no?
– Durerà tanto?
– Cinque minuti. Allora?
– E va bene, prometto.
Rimasi dunque lì fermo, a osservare il lento inesorabile calare del sole. Die-tro me, era tutto un rapido e confuso rumoreggiare di tavolini e sedie smosse, poi di cose posate, d’involti e di carta spiegazzata, senza che riuscissi bene ad afferrarne il senso; davanti, mentre la luce acquisiva un prezioso timbro dorato, il tra-monto diffondeva il suo riverbero di sole morente sull’acqua tranquilla, e nel vasto scenario pochi uccelli volteggiavano attorno all’isola. Pur non pesandomi affatto, quei cinque minuti mi parvero un’eternità.
– Ora puoi voltarti.
Quando Dora disse così, volgendomi dopo l’imprinting di quel magico mo-mento di luce, a tutta prima oltre a lei non ravvisai bene altro, nel singolare cono d’ombra venuto a crearsi col progressivo declino del globo rosso vivo.
Recuperai però quasi subito la piena facoltà visiva. E davanti al robusto letto matrimoniale, affiancato dalle due poltroncine della camera, distinsi il tavolino della zona giorno, che prima si trovava contro la parete della finestra a ponente: sullo stesso, si era materializzato come per incanto un vero banchetto. Disposti su tovagliolini di carta opportunamente spiegati e su alcuni piatti di plastica si trovavano due robuste trecce di pane, una magnifica forma di salame, delle sca-tolette di carne Simmenthal, pomodori, uova sode, formaggio, un barattolo di pe-peroni e uno di melanzane, nonché le mele e le arance, una bottiglia di vino ros-so senza etichetta, la bottiglia di minerale, bicchieri e posate di plastica, e altri tovagliolini.
– E questo cos’è? hai la bacchetta magica?
Dora scosse il capo, compiaciuta del mio stupore. – Sono solo una ragazza previdente, figlia di genitori a modo.
– Adesso cosa c’entrano i tuoi?
– C’entrano eccome. Intanto, sono previdente perché stamattina, prima di ve-nire in stazione, ho preso la Simmenthal, le posate, i bicchieri e i tovagliolini che avevo da parte, ho preparato le uova sode e sono corsa a comprare il pane. Eppoi, tutto questo ben di Dio chi credi me l’abbia dato?
– Ma… non capisco.
Sempre più divertita, Dora mi rammentò: – Secondo i miei, dove dovrei tro-varmi oggi?
– A Bologna per il seminario universitario; dalla tua amica…
Cominciavo ad intuire. – Non vorrai mica dirmi che…?
– Ma certo che sì – tagliò corto ella. – I miei genitori sono a modo perché, credendo sarei andata da lei, ospite in casa sua per quattro notti, hanno pensato fosse indecoroso presentarsi a mani vuote. Sana e onesta mentalità contadina.
– Qui ce n’è da rimpinzare una squadra di calcio – osservai. – Apposta a Stresa mi chiedevo come facesse la tua borsa ad essere così pesante.
Dora sorrise. – Guarda che a loro non ho chiesto niente. Anzi: sapessi quanta fatica ho dovuto fare per convincerli a rinunciare a darmi anche una gigantesca conserva di marmellata di prugne e un barattolo di miele! Tutta roba buonissima: la marmellata l’ha fatta mia madre e ti assicuro che è squisita.
– Questo si chiama trarre vantaggio dalle situazioni.
Accostammo tavolo e poltroncine alla finestra centrale e ci mettemmo a mangiare. La vista di quella manna aveva rinfocolato l’appetito. Del resto, le uo-va sode andavano consumate subito, e bisognava comunque rendere la borsa di Dora meno pesante – questa, almeno, fu la giustificazione che mi detti.
Il salame era superbo, i pomodori freschissimi, i peperoni e le melanzane in pinzimonio avrebbero fatto andare in sollucchero perfino Lazzaro prima che Gesù gli chiedesse di alzarsi; e il vino, imbottigliato dal padre di Dora, si accostava alle labbra rutilante e scendeva in gola che era un osanna…
Cenammo così, guardando il lago, e il pasto fu consumato quasi in silenzio, rotto solo da scarne frasi, mentre il crepuscolo diffondeva il suo prezioso river-bero di luce, creando incomparabili bagliori sull’acqua ferma e pennellando di sfumature azzurre e riflessi rosati i monti di sfondo. Per effetto dell’ora, la came-ra era velata da un filtro d’ambra rarefatto e ammaliante.
Quando finimmo, dividendoci un paio di mele, il lago era ormai avvolto dalla cortina delle prime tenebre: era salita lievemente la brezza, e sulla superficie dell’acqua cresceva l’affascinante silenzio, mentre lontane, disperse come lucciole vagabonde, si accendevano su ogni sponda le prime luci. L’imponente e sfarzoso spettacolo a cui avevamo assistito si era concluso.
Dopo che avemmo riposto di nuovo ogni cosa in borsa, constatai sollevando-la come il suo peso si fosse abbastanza ridotto. Dora guardò l’orologio: – Lo sai che sono appena le otto?
– Siamo a fine aprile: le giornate si allungano.
– E adesso cosa facciamo? Vuoi scendere a far due passi?
Me lo chiese proprio nel momento in cui, acceso la vicina abat-jour, m’ero finalmente allungato sul capace talamo che campeggiava a sinistra dell’ingresso, nella zona notte della stanza.
Non volevo sembrare pigro, ma men che meno volevo uscire; faceva ancora piuttosto freddo per essere tarda primavera, certo a motivo della brezza, che sof-fiava increspando lievemente le acque del lago. – Scendere? e per far che? Non mi pare ci siano luoghi da visitare, o ritrovi tipo le Folies Bergère – scherzai.
– Eggià, mica ci sono. Eppoi, il signorino ormai si è sdraiato…
– È vero. Ma ti prevengo: domattina presto, prima di colazione, voglio essere il primo cliente dell’albergo a bagnarsi nelle acque del lago. Una bella nuotata che inaugurerà la stagione balneare 1978…
– Sarai il primo ad essere ricoverato per congelamento. Al lago non è come al mare: qui fino a giugno inoltrato non ci prova nessuno.
– Apposta ci proverò io.
Dora mi fissò, misurando la serietà delle mie intenzioni. Poi levò gli occhi al cielo. – Con chi mi sono messa! – mormorò scuotendo il capo.
– Forse, potresti fare qualcosa per me – le dissi sibillino.
– Pregare? Lo sto già facendo.
– Non alludevo precisamente a quello…
Tornò a fissarmi, colpita dal tono insinuante della mia voce. Si accostò alla sponda del letto in cui, beatamente supino, giacevo col capo poggiato sulle mani incrociate contro il cuscino.
– E sarebbe?
– Vieni più vicina, così te lo spiego.
Un’ombra di sorriso le si dipinse sul volto. – Eh no. Non subito. Prima devo andare in bagno.
– Ancora? Ma se ci sei andata sì e no un’ora fa.
– Devo struccarmi, e devo…
Non le detti il tempo di finire: repentino l’afferrai per un polso e sollevando-mi col busto la rovesciai sul lettone.
Protestò, ma fu inutile. Le sbottonai la camicetta e non la liberai prima di un lungo, protratto, intensissimo bacio.
Dopo due spettacoli come il fantastico tramonto e la magica apparizione della mensa imbandita, a quell’indimenticabile serata mancava l’ultimo suggello: qualcosa di carattere intimo, che fu, se posso dirlo, anche la rappresentazione migliore.
Quella notte ci amammo tre volte, con tenerezza e particolare trasporto.