“Vorrei sempre dire ai giovani di darsi da fare, di non accontentarsi di una vita convenzionale, di fare esperienze. Quando si fanno questo tipo di esperienze si incontra tantissima bella gente, che ha molta cultura e umanità, e ti sa arricchire. Sono esperienze che ti portano sempre al limite: quando sei messo alla prova impari a conoscerti completamente, per quello che sei. Questa è vita, nella turbolenza. Ho sofferto anche tanto, ma torno a casa che sono contento, semplicemente perché ho vissuto. Così mi sento una persona viva”.
Luigi Napoli, infermiere carugatese 53enne, è appena tornato dal suo ultimo viaggio di cooperazione internazionale. Questa volta la sua collaborazione con Emergency lo ha portato in Kurdistan, precisamente a Sulaymaniyya, in Iraq. Ha moltissimo da raccontare di questi ultimi 3 mesi e 25 giorni che ha vissuto lontano dall’Italia, durante i quali si è occupato di gestire la clinica all’interno del campo profughi (IDP, Internal Dislocate People) di Arbat.
“Vivevo a Sulaymaniyya la capitale del governatorato, con altre 8-14 persone, tra chi arrivava e ripartiva –dice raccontando della sua giornata tipo– Ogni giorno ci sia lava alle 6.00 e si faceva avanti e indietro tra città e campo per andare alla clinica ad una ventina di kilometri a sud”. Sulaymaniyya è molto diversa dall’immaginario che abbiamo di quei luoghi: “Negli ultimi anni ha avuto un grande sviluppo, da quando il Kurdistan è riuscito ad avere i proventi del petrolio. La ricchezza è stata ridistribuita alla popolazione, ci sono ospedali, scuole, centri commerciali e assomiglia ad una piccola Dubai piuttosto che ad Aleppo“.
Ma questa immagine non deve trarre in inganno, poiché i territori occupati dall’Isis si trovavano a soli 150-200 kilometri: “I conflitti veri e propri erano uno in direzione siriana e l’altra verso Bagdad a sud. La parte confinante del Kurdistan è tranquilla, non ci sono stati tentativi dello stato islamico di sconfinare. Sulemymaniyya è un ‘isola tranquilla, perché militarizzata in ogni angolo della città”
La situazione nel campo profughi in cui lavorava è estremamente critica, come racconta. “Profughi e rifugiati sono due cose diverse, i primi sono sfollati i secondi arrivano da un paese diverso da quello in cui si trovano. I profughi del campo erano di etnia araba, irachena, sunnita. Nel campo c’erano 2-3 mila persone, ma da giugno dell’anno scorso in pochissimo tempo si è passati a circa 15 mila, fino ad arrivare a circa 20 mila. Sono state messe tende dappertutto, in modo anche caotico, e a mano a mano si è cercato di creare ed ampliare i servizi, cioè acqua, alimenti, vestiti, scuola, spazi per i bambini. Tra le altre cose si è ampliata anche la clinica”.
E in questa clinica Luigi si è trovato a contatto con malattie frutto di estrema povertà e mancanza di igiene. “Bagni e docce sono fuori dalle tende, in inverno fa molto freddo, d’estate l’acqua è molto calda, non c’è grande possibilità di lavarsi. I bambini giocano per terra e la maggior parte delle malattie sono gastro intestinali e infezioni delle vie respiratorie e urinarie. Ci sono spesso ustioni, perché cucinando nelle tende i bambini spesso urtano fornelletti e spesso arrivino alla clinica completamente ustionati in seguito all’incendio dell’intera tenda in cui vivono. nonostante Emergency ci abbia messo molto del suo, la mancanza di un ospedale si faceva sentire. I medicinali none erano abbastanza e non era possibile fare esami diagnostici”.
E nei campi come questo, i profughi sono estremamente provati psicologicamente e moralmente, vivendo stipati in piccole tende, subendo spessissimo lutti familiari, oltre al trauma di veder stravolta la propria vita. “La popolazione con cui ho interagito non è sempre stata povera, né ignorante. Ho avuto a che fare con ingegneri, universitari, psicologi, medici. C’è una sofferenza psicologica da parte delle persone molto più grande rispetto ad altre popolazioni -ha spiegato Napoli- Avevano una casa, un lavoro, una macchina, mandavano i figli a scuola, avevano una sorta di civiltà che hanno vista annientata ritrovandosi a vivere in tenda. Tanti erano i casi di crisi isteriche, infatti c’era un servizio di assistenza psicologica che aiutava la popolazione del campo in questo senso”.
Ma come percepisce la gente del campo la presenza di persone straniere che cooperano nella clinica? “La maggior parte delle persone ti ringrazia, capisce che sei una persona venuta da un altro mondo per aiutarli. Alcuni invece no, pretendono molto, ma dipende anche dallo stato di sviluppo umano che aveva raggiunto quel popolo. Delle volte c’era la sensazione che percepissero la clinica come se fosse un supermercato, come se qualcosa gli fosse dovuto. Non è un comportamento dettato dalla loro cultura o religione, ma dalla situazione in cui si sono ritrovati”.
In questi mesi è stato molto a contatto con il popolo Curdo, e Luigi lo descrive come “un popolo musulmano molto tollerante, infatti in Kurdistan ci sono molto chiese cristiane. Sono tolleranti al punto tale da ospitare nei propri territori campi profughi in cui si trovano iracheni sunniti che li hanno martoriati per anni. Le donne possono vestire all’occidentale, andare all’università e guidare la macchina e addirittura ci sono negozi che vendono alcolici nonostante siano vietati ai musulmani. Il Kurdistan non è ancora riconosciuto come stato nazionale, ma credo manchi poco. Penso che i futuri equilibri vedranno il dissolversi della Siria, della quale una parte sarà assorbita dal Kurdistan, ci sarà una nazione sunnita, e il resto dell’Iraq sciita”.
Il tempo di una vacanza e Luigi è già pronto a ripartire. Ha infatti già progettato di tornare in Kurdistan, nello stesso campo profughi dove ha lavorato durante il suo ultimo viaggio. Ripartirà il 1 settembre per restare lì 3 mesi esatti e sicuramente quando tornerà avrà ancora tanto da raccontare di quei posti così lontani dalla nostra realtà, ma che grazie alle sue parole stiamo imparando a conoscere e capire.