Sono passati pochissimi giorni da Pasqua, ma lontano da casa nostra purtroppo l’odio e la guerra hanno continuato a mietere vittime, indifferenti della festività. Abbiamo ancora negli occhi le immagini della strage di studenti avvenuta all’università di Garissa in Kenya per mano dei fondamentalisti di Al Shabaab e le ultime notizie dalla Siria parlano di 3500 bambini intrappolati nel campo profughi palestinese di Yarmouk.
In questo clima difficile, in cui l’intolleranza e i conflitti religiosi sembrano fare da padroni, arriva la testimonianza di Luigi Napoli, carugatese in viaggio con Emergency in Kurdistan, nel nord est dell’Iraq, dove lavora in un campo sfollati dell’UNHCR (qui il suo racconto prima della partenza).
“Sono andato a messa sabato sera al Faruk Medical City, un ospedale privato dove lavora un bel gruppo di operatori sanitari filippino e indiano– racconta Luigi- La messa era in rito Caldeo, in quanto la Chiesa Cattolica Caldea rappresenta la maggioranza dei credenti cristiani iracheni, che sono quasi 250.000. Ho partecipato alla messa di Pasqua da straniero, insieme ad altri stranieri, in terra straniera. Tutto mi era estraneo, dalla lingua, ai confratelli, al rito, eppure eravamo uniti in un unica fede. Questo può sembrare strano, considerando che a poche decine di chilometri da qui, la fede è usata come strumento di divisione e guerra, anche tra fedeli della stessa religione, credenti nello stesso Dio e nello stesso Profeta”.
La situazione dei cristiani di quella zona non è affatto semplice.
“Quasi 150.000 persone cristiane sono fuggite dalla piana di Ninive e dalla città di Qaraqosh, come mi ha raccontato Karim Issoua, un profugo cristiano caldeo che ho conosciuto. In una sola notte, quella del 7 Agosto 2014, tutti gli abitanti della regione sono stati costretti ad abbandonare il territorio e la comunità cattolica ha accolto questi profughi ospitandoli nei locali delle parrocchie e nelle stesse case dei parrocchiani”. È stata invece diversa la sorte delle altre comunità, come quella Yazida, per la quale si può parlare di un vero e proprio genocidio compiuto su base etnico-razziale per mano dell’Isis.
Luigi racconta la difficile situazione in cui si trovano alcuni degli sfollati, rigettati da molte comunità a causa della loro etnia. “I profughi musulmani sunniti iracheni sono i veri stranieri in casa propria. Non li vogliono i Kurdi, da sempre i loro nemici più feroci, ricordiamoci che Saddam Hussein uccise con il gas tutta la popolazione della quarta città più grande del Kurdistan. Non li vogliono i sunniti fedeli all’ISIS, perché sono fuggiti quando è iniziata la guerra. Molti di loro sarebbero morti appena fosse stato scoperto che lavoravano per società straniere. Non li vuole il governo iracheno filo-sciita, perchè sono sunniti e perchè non hanno opposto resistenza alla conquista delle loro città dalla parte dell’ISIS, e pertanto considerati traditori e collaborazionisti”.
Tutto questo Luigi Napoli, infermiere carugatese, lo vive mentre lavora con Emergency.
Ogni giorno più di 200 visite, compiute da un team professionale, che cerca di aiutare più persone possibile a prescindere dalla loro origine e dal loro credo. “Io mi trovo al campo di Arbat per sfollati iracheni, la maggior parte arabi sunniti e yazidi. È una comunità di 18.000 persone che vivono in tende, senza acqua corrente, dove ogni giorno camion pieni d’acqua riempiono le cisterne del campo e questo vuol dire che a volte l’acqua finisce, e si può restare senza acqua calda, gas e luce elettrica“.
Sono persone in enormi difficoltà umanitarie, che vivono situazioni inimmaginabili per noi, e che Luigi definisce “i miseri tra i poveri, perché hanno perso tutti i propri beni materiali e spesso un parente ucciso dalla guerra”, sono quelli che “hanno ferite e lesioni permanenti da arma da fuoco, ma soprattutto hanno perso l’identità, il senso di appartenenza ad una comunità, perché non li vuole più nessuno. E questa è la comunità senza speranza che ogni giorno si presenta alla porta della clinica del campo, rivendicando cure per le loro malattie, con una tale urgenza giustificata soltanto dall’ estremo stato di sfiducia verso il genere umano e la vita stessa. L’angoscia di non essere curati e la paura che dietro a qualsiasi piccolo sintomo ci sia una gravità che porti alla morte, spinge queste persone a richiedere una priorità d’accesso che genera una ressa difficilmente ordinabile secondo un minimo rigore scientifico. Ogni giorno e una lotta per stabilire priorità e farle rispettare”.
Nonostante le difficoltà, Luigi e gli altri cooperanti, tra medici e infermieri, cercano di portare avanti il loro lavoro nel modo migliore possibile, tenendo un pensiero sempre rivolto a casa, soprattutto in occasione della Pasqua. Così, anche se in leggero ritardo sui tempi, vi giriamo questo ultimo, meraviglioso pensiero di Luigi.
“Lavoriamo senza credere di cambiare il mondo ma solo cercando di rimanere fedeli alle idee che ci guidano, al senso profondo di giustizia che ci unisce e che ci spinge a lavorare per Emergency. Un saluto a tutti e…Buona Pasqua”.