Luigi Napoli
ha 53 anni e vive a Carugate da 26, con la moglie Ernestina e i tre figli.
Avrebbe potuto vivere una vita tranquilla e normale, continuando a lavorare come infermiere al pronto soccorso dell’aeroporto di Linate come ha fatto per diversi anni. Invece ha scelto di prendere una strada diversa, in salita, seguendo quella che definisce “laicamente, una predisposizione naturale, in senso religioso una vocazione”.
Domani 4 Marzo partirà per il Kurdistan, per il terzo viaggio di cooperazione internazionale della sua vita.
La sua esperienza inizia anni fa con l’associazione carugatese “La Comune Luigi Bottasini” (qui). “Ho partecipato a due viaggi di un mese ciascuno, sono stato in Nicaragua a conoscere i progetti de La Comune. L’incontro con Dino e Gloria è stato centrale, mi ha davvero cambiato, non avrei cominciato se non avessi fatto la loro conoscenza”.
Poi il 1 Febbraio 2007 parte per il suo primo viaggio di cooperazione con Emergency, a Khartoum in Sudan, dove collabora all’apertura dell’ospedale di cardiochirurgia Salam Center.
CON EMERGENCY TRA I MALATI DI EBOLA
E infine, nel 2015 un altro viaggio con Emergency, questa volta in Sierra Leone. “Ho girato pochissimo, ma per quello che ho potuto vedere la Sierra Leone è un paese molto bello ma anche molto disastrato. Nelle città si vede come abbia influito la cultura occidentale nel suo aspetto peggiore, dalla speculazione edilizia alla costruzione di casinò. Non ci sono fognature, nè un sistema di riciclaggio dei rifiuti. Tanta è la povertà, la vita media è di 38 anni, muoiono circa 270 bambini su mille prima dei 5 anni di vita e il Paese è 184esimo nell’indice di sviluppo umano”.
Luigi in queste tre settimane in Sierra Leone ha lavorato in un centro per la cura dei malati di ebola a Goderich.
Com’è la vita in una struttura come questa?
“Il lavoro cominciava alle 8.00 del mattino. All’entrata del centro c’è sempre una postazione di controllo della temperatura e poi la “change room” dove ci toglievamo i vestiti personali per indossare la divisa. Dopo di che si stabilivano i turni di assistenza nella zona rossa, dove ci sono le strutture con cui vengono assistiti i pazienti colpiti da ebola. Per arrivare alla zona rossa bisognava passare attraverso zone gialle, di passaggio, dove indossavi indumenti di protezione specifica, cioè calzari e stivali di gomma, tuta saldata e priva di cuciture che copriva dalle caviglie sino alla testa con un cappuccio, poi cuffietta e maschera, infine visiera e doppi guanti. Tutta la vestizione era controllatissima, soprattutto la ricerca di eventuali buchi nella tuta”.
“Il lavoro nella zona rossa non era affatto semplice -racconta- Il tempo limite di ogni entrata in zona rossa era di un paio d’ore circa, di più non era possibile. Il rischio era quello di commettere errori: lavorare in quella situazione era davvero pesante, si sudava tantissimo, il caldo era insopportabile. La tuta oltretutto non era traspirante e il caschetto stringeva molto la testa. Infine, prima di uscire, il processo di pulizia poteva richiedere molti minuti, perché composto da numerose fasi di lavaggio, anche da ripetere più volte”.
Una cura virale per ebola ancora non esiste, quindi i medici operano un processo di sostegno del fisico perché produca gli anticorpi necessari a debellarla. Ma i sintomi da affrontare sono veramente impressionanti.
“Si comincia con la febbre ma poi si passa ai muscoli, che vengono distrutti. Ebola provoca una tale spossatezza da non riuscire nemmeno ad aprire gli occhi e ad allargare i polmoni. Il cuore fa fatica a pompare, i reni sono intasati e non riescono più a filtrare. E poi ci sono il vomito e la diarrea, che disidratano tantissimo”. I più forti però riescono a sconfiggerla. “Nelle settimane in cui ero lì sono state dimesse 8 persone e ne sono morte 4. Tra i guariti c’era una bambina di 7 anni, che aveva contemporaneamente ebola e malaria, e un bambino di 4 anni , l’unico caso di guarigione da ebola al di sotto dei 5 anni. All’uscita c’era la “Porta del destino” ad aspettare i sopravvissuti: è la porta da dove escono i dimessi e viene chiamata così perché una volta guarito da ebola ti aspetta ancora il tuo destino, cioè quello di un paese povero, in cui potresti ammalarti di chissà quante altre malattie”.
IN KURDISTAN DOVE LOTTANO PESHMERGA E ISIS
Luigi partirà domani alla volta del Kurdistan , nel nord est dell’Iraq, al confine con Siria e Iran.
“Dove andrò io in Kurdistan saremo a circa 150 kilometri da Kirkuk dove si fronteggiano i peshmerga, cioè l’esercito curdo, e l’ISIS. Io sarò a Sulaimaniya, una città che dovrebbe essere sicura e tranquilla. La popolazione curda è musulmana ma molto aperta, nella loro società c’è equità tra uomo e donna e una buona scolarizzazione. Lavorerò in un campo di sfollati iracheni dell’UNHCR, dove ad Emergency è stata affidata la parte sanitaria. Certo, la guerra è lì ad un paio d’ore, può succedere di tutto. La paura c’è, come c’era di ebola in Sierra Leone. Però c’è qualcosa di più forte che ti spinge a fare queste cose.”
Dopo mesi di forte allarmismo in tutto il mondo, i riflettori sembrano essersi spenti del tutto sulla questione ebola: “Certo, l’informazione non è completa, ma il fatto è che il grado di interesse che c’è in occidente di questioni al di fuori di esso è minimo, c’è una sorta di assuefazione per le tragedie. Quello che fa notizia è la novità, quando la questione coinvolge l’occidente. Ma poi tutto finisce nel dimenticatoio, come è stato per l’AIDS, per la SARS, poi per l’Aviaria. Ora c’è stata ebola. Ebola in Africa c’è dal 1979, però quando ha cominciato a prendere qualche centro abitato grosso e a fare tante vittime anche tra gli occidentali, l’interesse è cresciuto”.
Una nota amara accompagna la riflessione di Luigi riguardo alla percezione occidentale delle organizzazioni di cooperazione: “Secondo me il problema è che non si riesce a capire che la cooperazione è lo strumento di politica estera che ha l’occidente per risolvere i problemi nel mondo, questioni che poi investono anche noi. Basti pensare che da quando è scoppiata guerra in Iraq, poco più di 10 anni, solo gli Stati Uniti hanno investito in guerra 4400 miliardi di dollari. Se tutti questi soldi fossero stati devoluti alla cooperazione non ci sarebbe più nessuno che muore di fame nel mondo e il riconoscimento che la popolazione, anche di culture diverse, avrebbe verso l’occidente sarebbe diversa dall’immagine su cui giocano facilmente dei disgraziati assassini come quelli del’ISIS, di Boko Haram e altri estremisti islamici”.
Tante possono essere le motivazioni che spingono una persona nata e cresciuta in un paese benestante a partire per un viaggio di cooperazione internazionale. Per Luigi si stratta di una questione di giustizia: “Io questo senso della giustizia l’ho avuto sin da ragazzo, è ciò che mi ha portato ad interessarmi di problemi sociali, di politica, poi a fare l’infermiere, l’insegnante di italiano per gli extra comunitari, a fare il catechista, e infine a partecipare a viaggi di cooperazione”.
Le opinioni delle persone riguardo a questo tipo di viaggi sono varie, qualcuno pensa che sia una sorta di “andarsela a cercare”, e su questo Luigi commenta: “Io non so se la gente pensi questo. Ma tra quelli che te lo dicono, e sono tanti, e quelli che non te lo dicono ma ti guardano facendotelo capire, sicuramente la cosa che traspare è “sei pazzo, un folle”. Nella maggior parte delle persone c’è il rifiuto, non c’è dialogo, tutto si riduce in un “perché vai là, rischi di ammalarti, rischi di essere rapito. La maggior parte della gente non vuole capire, non vuole mettersi in gioco. Secondo me lo fanno perché sanno che se vieni coinvolto poi qualcosa ti scatta dentro”.
Il carugatese continua il suo racconto con un velo di commozione.
“C’è una cosa bellissima che una ragazza che ha fatto questo tipo di esperienza mi disse una volta: tante volte è meglio non saperle le cose, è meglio non vederle, perché poi non puoi più tirarti indietro. Questo è vero, è difficile rimanere indifferenti quando sai, quando conosci, e quel conoscere non è solo informazione è qualcosa che entra nell’anima, nel cuore. Queste esperienze cambiano il modo in cui percepisci la quotidianità e contagia le persone che ti sono intorno. La passione entra dentro di te, così fai certe cose mettendo da parte la ragione, le fai col cuore- racconta con la voce commossa– È la soddisfazione che ti porta a continuare, se non ci fosse la gioia certe cose non le faresti. Il mio invito a tutti, soprattutto ai giovani è quello di mettersi in gioco, viaggiare, vedere con i propri occhi e capire il mondo”.
Prima di concludere, racconta un aneddoto curioso relativo al suo incontro con la popolazione musulmana del posto. “Quando entri in contatto con la popolazione del luogo, c’è l’usanza di ricevere da loro un nome musulmano. Mi hanno dato il nome di Abramo, Ibrahim. Mi hanno chiesto se mi andava bene, e io ho accettato perché in fondo è padre di tutte le religioni, sia della loro che della mia”.