PRIMA LUCE

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Inciampo.

La mano brancola nel buio, trova un masso e lo stringe. Tenebre maledette.

Mi sollevo e guardo avanti: lui è ancora lì, ma tra poco la nebbia lo inghiottirà. Devi muoverti. Fa’ presto.

L’oscurità torreggia su di noi, figlia di quest’antro sconfinato. M’inerpico sul sentiero cercando di tenere il passo, ma il piede non risponde. Arranca sulla terra umida come un serpente ferito. Corpo, prigione d’anima, tu non sei qui. La fatica e il dolore sono soltanto illusioni, almeno finché dura questo cammino.

Mi affretto, corro, volo dietro di lui. Le mani fendono la nebbia come remiganti. Nel silenzio gelido dell’antro sento il cuore battere d’apprensione. Vorrei chiamarti, gridare la mia pena e il mio desiderio; ma so che basterebbe un sussurro a perdermi. Se ti voltassi, io ripiomberei nell’oblio. Orfeo, mio adorato Orfeo.

Sei sceso negli Inferi per ricondurmi alla luce. Hai ammansito Cerbero e insegnato il pianto ad Ade. Tutto ciò l’hai fatto nel mio nome; eppure, perché i tuoi piedi sembrano galoppare, perché le tue gambe si flettono spietate? Non ti angoscia il pensiero di lasciarmi indietro? Il tuo passo non è quello di un amante. E’ la marcia di un eroe che torna dall’impresa, gonfio d’orgoglio, impaziente di sfoggiare il suo trofeo.

Senza che me accorgessi, la salita è terminata. L’aria intorno a noi ha un sapore nuovo e la foschia è più rada. Le dita dei piedi sfiorano pallidi arbusti, simulacri della vita di lassù. Finalmente posso muovermi di buona lena! Ma proprio quando la via è facile e guadagno terreno sul mio amato, un ricordo s’insinua come una brezza malevola. Mi torna alla mente l’addio di Persefone; mentre Ade commosso c’invitava a partire, lei parlò a me e solo a me. La voce della dea riecheggiò nella mia testa: «Sono stata donna prima di te. Sei certa di ciò che vuoi? Posso sfogliare i tuoi ricordi: vedo passione, ma anche profonda tristezza. E’ davvero amore quello che ti riporterà fra i vivi?».

Il ricordo è un freno che rallenta le membra. L’incedere si fa distratto, quasi annoiato. Soltanto tu continui a camminare, dritto per la tua strada. E in fondo, perché no? L’hai sempre fatto, anche quando mi portavi nella foresta col pretesto di passeggiare insieme. Sapevo che non t’importava; volevi solo che qualcuno ti ammirasse mentre pizzicavi le corde, inventando nuove melodie. Ero io a guardarti, ma poteva essere chiunque altro, perché non cercavi amore: volevi essere adorato.

Quasi a scacciare i pensieri oscuri, ecco! La prima luce ci coglie. E’ solo un bagliore tenue all’imbocco della caverna, eppure i miei occhi ne sono abbagliati. Di colpo avverto una stanchezza profonda. Corpo, prigione d’anima, lentamente ti riappropri di me: rivoli di sudore m’imperlano la fronte e la nuca, il respiro diviene affannoso. Riaffiora il vecchio dolore: il piede pulsa per il morso del serpente. Miei Dei, mi sento mancare…

Niente di tutto ciò tocca il mio Orfeo, che con ampie falcate procede verso il mondo dei vivi. La distanza che ho conquistato a fatica è già perduta: dieci, venti, trenta passi… lui sa che ormai è fatta. Quella luce è il suo trionfo. Già lo sento canticchiare il primo verso della ballata: “Orfeo tornato dagli abissi”. Per lui ormai non esisto più.

Il dubbio di Persefone torna ad assillarmi: sei certa sei certa sei certa?

Ed è come se un vaso di crudeltà si fosse aperto.

Rivivo le notti trascorse in compagnia della luna: sapevo dov’eri ma aspettavo comunque il tuo ritorno, maledicendoti per le passioni fugaci, gli ardori e le infatuazioni di donne senza volto. Quando rientravi all’alba, trovandomi ancora sveglia, mi lanciavi un’occhiata di rimprovero. Perché ti sorprendi, donna, sembravi dire. Uno spirito eccelso appartiene al mondo intero, non può essere solo tuo. Tali sciocchezze mi propinavi; e io, nella stupidità del mio amore, ti ascoltavo!

Come ho potuto credere a un bugiardo simile?

Che ipocrita sono; conosco già la risposta. Ti credevo perché sei un magnifico bugiardo. Stregavi le folle cantando il nostro amore, colmo di una tenerezza struggente. Invece la verità si svelava più tardi, nel giaciglio, quando ebbro di vino mi prendevi con foga, ansando come un animale, tappandomi la bocca per soffocare i lamenti. Poi crollavi su di me, già addormentato. Nessun bacio accarezzava il mio viso.

E chissà se almeno ti penti di quella volta…

Era il banchetto che attendevo da tempo. Giorni trascorsi alla ricerca di spezie d’Oriente, studiando ricette di paesi mai visti, soltanto immaginati. Lunghe, cerimoniose istruzioni alle ancelle: entrare di là, uscire di qua, come servire il vino, quando cambiare portata senza interrompere le chiacchiere degli ospiti. Un intero pomeriggio a profumare la sala con fiori selvatici e bracieri d’incenso. Poi venne il momento che avevo sognato: gli amici più cari riuniti nella frescura del portico, all’ora del tramonto. Li incantai con il sorriso che avevo provato per ore nell’acqua della fonte. Ma proprio mentre invitavo alla cena, note appena schiuse ci colsero: tu avevi carezzato la lira. E tutti, ancora una volta, caddero nell’inganno. Fu come se le ore avessero cessato di esistere, ogni anima presente in quel portico rapita per un tempo interminabile. E intanto, nel salone, i fiori appassivano, le pietanze raffreddavano, le mosche ronzavano attorno ai piatti.

Quanta rabbia provai allora! Tuttavia la collera mi sembra un dono rispetto all’umiliazione di quella sera: perché, nel tuo canto, parlavi di me. Mi chiamavi Musa, dedicandomi ogni respiro. Per gli altri ormai c’era solo Euridice la bella, sublime, simile alla Luna. Volevo urlare che una creatura del genere non sarebbe mai nata, che quel ritratto era una clamorosa bugia. Ma nessuno mi avrebbe ascoltata, perché l’Euridice cara ai loro cuori non era sotto quel portico: era cullata fra gli arpeggi della tua melodia. Io non esistevo più.

Non mi restava che fuggire lontano, fino a quel prato, fino alla roccia. Fino al dente avvelenato della vipera. Tuttavia quel dolore atroce non fu niente, niente! Paragonato a quello che m’infliggesti.

 

Il chiarore dell’alba accoglie la fine di questo cammino. Una brezza tiepida scompiglia i capelli. Mancano pochi attimi alla mia resurrezione.

Tu sei già nella luce, la tua ombra avanza senza rumore nel mondo dei vivi. Orfeo, mio adorato Orfeo.

Soltanto ora capisco: spirito lo ero ben prima di finire in questo luogo oscuro. Spirito lo sono sempre stata. Al tuo fianco ero priva di consistenza, un essere rarefatto determinato dalla tua volontà. Ma se spirito devo essere, almeno non voglio più provare dolore. Niente più notti insonni né lividi sul volto. Nessuna triste ipocrisia. Persefone, ora sono certa.

Sulla soglia degli Inferi, sussurro: “Orfeo”.

I riflessi lo tradiscono; forse si sentiva già al sicuro sotto i raggi del sole. Si gira verso di me e in quell’istante lo sento: il sospiro di Ade, un vento infernale che mi solleva e risucchia con sé. L’espressione sul suo viso s’imprime nei miei occhi, prima che il turbine mi trascini via: è pallido, sbigottito, furente. Sa che l’ho beffato. L’uomo capace di smuovere un Dio è stato battuto da una donna; sconfitto da una creatura che riteneva priva d’orgoglio. Non una lacrima a rigargli il viso. Nessun pianto che parli di me.

Che importa, ora? Quello che era il mio amore è già lontano. La sua figura svanisce, i contorni si assottigliano come l’eco di parole svogliate, perdendosi nella prima luce.