Sabato sera abbiamo visto un film pornografico schifoso. Quando si è eccitato ha voluto che facessimo delle cose anche noi. Mi ha fatto fare cose che sa che non mi piacciono, mi umiliano e mi fanno soffrire. So che è inutile cercare di parlarci, di convincerlo a non farlo. Nei suoi occhi non c’è più nulla per me. Non c’è amore, non c’è pietà, non c’è compassione. E’ difficile per me ricordare se ci siano mai stati. Prima di iniziare si è tolto la vera e l’ha appoggiata sul comodino. Forse per fare come se non fosse mio marito. In realtà perché a volte mi ha lacerato la pelle colpendomi, anche sulla faccia. Non vuole che ci siano segni che poi io debba giustificare di fronte agli altri. Perché mi prende a schiaffi, sul corpo e sul viso, quando non sono abbastanza pronta ad ubbidire. Quando piango, o quando si accorge che mi sta venendo da piangere.
Aiuto non l’ho mai chiesto. Ne ho parlato qualche volta, all’inizio, con le amiche. La mia migliore amica era turbata quando gli raccontavo certe cose. Non sapeva cosa consigliarmi, era evidente che preferiva non sapere. Avrebbe preferito non essere mia amica, piuttosto che stare ad ascoltarmi. Mia madre mi diceva che dovevo ragionare con lui, farlo ragionare, spiegarmi. Ci ho provato, all’inizio. Quando le ho detto che non serviva a niente, anche lei non sapeva più cosa dirmi. Le ho chiesto più di una volta se ne aveva parlato con papà. Mi ha detto di no. Che, se gliel’avesse detto, papà l’avrebbe ammazzato. Sappiamo tutte e due che mio padre non riuscirebbe ad ammazzare nessuno. Dirglielo io non sono mai riuscita. Non ci ho mai nemmeno provato. Morirei di vergogna. Anche se muoio di vergogna lo stesso, anche se non lo dico più a nessuno. Mentre aspetto che la faccia si sgonfi per poter uscire di casa, quando devo guardare negli occhi le persone, quando mi chiedono come va. Quando rispondo che, normale, va abbastanza bene.
Non riesco ad andare alla polizia. Dubito che mi sarebbero d’aiuto. Anche mia madre mi dice che aiuto vuoi che ti possano dare. Rovinerebbero solo il tuo matrimonio e basta; così le cose si metterebbero in modo che poi non si potrebbe più rimediare. Con lei è inutile parlare. Però leggo le notizie sui giornali, di donne che aiuto l’hanno chiesto e sono finite male lo stesso. A volte mi sono immaginata la scena. Io seduta su una sedia in un ufficio, le luci al neon sopra la testa, un poliziotto o una poliziotta che cerca di guardarmi negli occhi, mentre io non riesco nemmeno ad alzare la testa. E intanto cercare le parole per fare in modo che la mia vergogna non sia più grande della sua colpa. Senza riuscirci. E sapere in ogni istante che non sarei sola. Che ci sarebbe lui, dietro la spalliera della sedia, ad ascoltare le mie parole. A riaccompagnarmi a casa quando avrei finito la deposizione. Ad aspettarmi a casa. A venirmi a cercare. A farmela pagare.
Ho cominciato a pensarci quando stava per scadermi il contratto a tempo determinato. Non ci sarebbe più stato un posto di lavoro dove venire a cercarmi. Mentre lui era in studio a casa io ho riempito una valigia e un borsone con la mia roba. Ho preso i miei documenti, i soldi che ho prelevato questo mese e il mese scorso. Non gli ho lasciato scritto niente. Non ho detto niente a mia madre, niente alle amiche, niente alle colleghe. Ho preso un taxi e sono andata a casa di Anita. Mi ha detto che posso stare da lei finché sarà necessario. Mi ha detto che mi accompagnerà lei in un centro antiviolenza, quando e se mi sentirò pronta ad andarci. Sul taxi ero rabbiosa, felice. Mi sentivo calma, decisa, avevo il cuore in tumulto. L’autista ha intuito qualcosa, non so cosa. Ha cercato i miei occhi nello specchietto retrovisore. Poi li ha distolti per guardare la strada. Sì sto piangendo, avrei voluto dirgli, e allora?
Non so come ha fatto a trovarmi. Non ho mai risposto al telefono. Non ho detto a nessuno dov’ero. Ero uscita a fare la spesa mentre Anita era al lavoro. Ho messo giù le borse per cercare le chiavi. Mentre giravo la chiave nella toppa ho sentito i passi che scendevano a rotta di collo le scale dal piano di sopra. Non so nemmeno dire se ho capito subito. Mentre mi voltavo me lo sono trovato addosso. Ho aperto la bocca senza riuscire ad emettere un suono e lui mi ha spintonato dentro. Le borse sono cadute sul pavimento, lui ha chiuso la porta dell’appartamento alle sue spalle. La paura mi ha gelato. Ho pensato che mi avrebbe fatto del male. Ho sperato che qualcuno avrebbe visto le borse rovesciate sul pianerottolo, le chiavi ancora infilate nella toppa dall’esterno, che sarebbe venuto a vedere cosa succedeva. Ho indietreggiato. Sono stata io a parlare. Gli ho chiesto cosa voleva. Gli ho detto che ero stufa di lui, che volevo che uscisse da quella casa. Sentivo una morsa nella pancia, la voce mi tremava. Mi ha detto che era venuto a prendermi, che ero una brutta puttana, di fare le valigie. Gli ho detto che non ci pensavo nemmeno, di non avvicinarsi e di non osare toccarmi che mi sarei messa ad urlare e chiamato la polizia. Prova ad urlare e ti ammazzo, ha detto. Non so se ci sarei riuscita, avevo la gola bloccata, ho cercato di andare verso la stanza di Anita per chiudermi dentro. Mi ha sbarrato il passo, io ho cercato di lanciarmi verso la porta d’entrata ma lui era più vicino. Mi ha tirato uno schiaffo ma io mi stavo muovendo, mi ha preso solo di striscio, le punte delle sue dita dure hanno urtato contro la mia guancia. Allora sono corsa all’indietro, verso la porta della cucina. Non sono riuscito a chiuderla dietro di me, c’era lui in mezzo, mi ha dato un’altra spinta. Ho gridato, ho chiesto aiuto, era la prima volta che lo facevo. Lui ha preso una padella per il manico e mi ha vibrato un colpo sulla testa, sul lato sinistro della faccia. Ho sentito uno schianto nella testa, ho perso l’equilibrio, ho cercato di aggrapparmi al banco della cucina ma sono caduta. Ho sentito una maniglia urtarmi nella schiena, con la nuca ho battuto contro uno spigolo. Il fiato mi mancava e nell’orecchio sinistro sentivo un doloroso ronzio metallico. Ma ho sentito lo stesso che diceva, se urli ancora ti ammazzo. Ti ammazzo e poi mi ammazzo. Vuoi questo, mi ha chiesto chiamandomi troia, vuoi morire? La cosa più strana era che era mio marito. Il suo volto, la sua voce, mi erano ancora familiari, malgrado tutto. Sono scoppiata a piangere per il dolore, per la rabbia, per la paura, lì seduta sul pavimento della cucina. Ho gridato ancora, ho chiesto aiuto, pensavo che la mia voce rotta dal pianto non l’avrebbe sentita nessuno. Anche lui si è messo a urlare, mi è arrivato un calcio sul braccio sinistro, ho sentito il rumore disordinato delle posate rovesciate sul piano della cucina. Mi è venuto sopra, scavalcando le mie gambe con un piede. Ho pensato che volesse picchiarmi ancora e ho alzato le braccia sopra la testa per proteggermi, mugolando. Il primo colpo non l’ho visto arrivare. Ho sentito solo un forte dolore al braccio sinistro, all’avambraccio, e ho visto anche qualche schizzo di sangue che mi cadeva sulla camicetta. Sono scivolata a terra, sulla schiena, cercando di allontanarmi da lui, tenendo le braccia alzate per proteggermi. Il secondo colpo l’ho visto con i miei occhi. Me l’ha sferrato con il coltello che teneva in mano, chinandosi in avanti, passando al di sotto delle mie braccia alzate, al centro del petto. Ho guardato in giù e ho visto l’assurda irrealtà della lama del coltello infilzata all’altezza del mio sterno. Ho alzato gli occhi per guardare il suo viso, che era vicinissimo. Ho cercato di prendergli il braccio con le mani, ma non sono stata capace di afferrare niente, lui stava già sfilando la lama dal mio corpo, quando ha tolto il coltello ho visto il sangue sgorgare dalla ferita. L’ho guardato ancora in faccia, i miei occhi dovevano essere enormi, perché sentivo la testa che mi stava esplodendo. Ho pensato che non poteva essere vero. Che non stava succedendo davvero. Ma poi l’ho visto nei suoi occhi e così lo sapemmo tutti e due. Che ora che mi aveva colpito e che il mio sangue macchiava i vestiti e le piastrelle l’avrebbe fatto ancora, e ancora, e ancora, finché l’avesse voluto, che io fossi ancora viva o fossi già morta, o finché il braccio non gli avesse retto più.
All’inizio ho pensato che andava tutto bene. Mi piaceva stare dov’ero. Mi sentivo al sicuro. Né lui né nessun altro avrebbero potuto venire a farmi del male. Non sentivo né caldo né freddo, né stanchezza né paura né dolore. Se aprivo gli occhi c’era sempre il buio intorno a me. Non so quanto tempo fosse passato. Non c’erano più i giorni né le notti, né lo spazio intorno né il mondo. C’ero solo io e me stessa, e questo era sufficiente. Poi, non so cosa è cambiato. Ho sentito il bisogno di uscire. Ho mosso le braccia, come pensavo di non poter fare, e ho spinto con le mani. Ho spinto finché il coperchio non si è mosso, è scivolato da parte. Ero sdraiata e la terra ha cominciato a franarmi addosso, ma non mi sono preoccupata. Mi sono riparata la faccia e poi ho cominciato a scavare con le mani, a risalire attraverso la terra, poi ho spinto di lato la lapide e sono uscita fuori. Avevo la faccia, le mani, il corpo e i vestiti tutti sporchi di terra, ma ero fuori. Anche lì era buio, però riuscivo a distinguere il cielo e le nuvole, gli alberi, le sculture le croci e le lapidi e le masse informi dei fiori sulle tombe. Ho provato a camminare. Ho fatto un po’ di fatica solo all’inizio, come per riprendere un’abitudine perduta. Ho camminato attraverso il cimitero, sui vialetti deserti, fino al cancello chiuso. Sono uscita nel piazzale del parcheggio, dove c’era solo qualche macchina qua e là. Conoscevo la strada e ho cominciato a camminare. Piano piano il terriccio che mi si era appiccicato alla pelle e ai vestiti ha cominciato a staccarsi e a cadere. Dopo un po’ perfino sotto le unghie con cui avevo scavato nella terra non c’era più nulla. Le vie periferiche della città erano vuote. Ho incrociato qualche auto, i fari mi hanno illuminata per un istante mentre passavano. Senza fermarmi, mi guardavo le braccia, le mani, le gambe, sotto i vestiti. Le ferite erano guarite quasi del tutto, stavano scomparendo, anche quelle più orrende che mi ero vista infliggere mentre ero ancora cosciente. Mi sentivo tranquilla, continuavo a camminare verso il mio quartiere. Incrociai qualche persona, nessuna mi degnò di uno sguardo. Solo i fari delle rare automobili gettavano su di me ogni tanto qualche lama di luce. Sono arrivata all’incrocio con la via dove avevo vissuto tanti anni con i miei genitori, ma ho continuato a camminare. Volevo andare a casa, non avevo fretta, ma volevo andare a casa. Il mio quartiere dormiva come il resto della città. Le case erano buie, solo qualche finestra era illuminata nelle facciate scure. Qualche luce l’ho vista spegnersi al mio passaggio. Per tutta la strada non sentii che pochi rumori, il rumore del motore delle macchine, il brusio di un traffico più lontano, un volta per un breve momento l’ululato di una sirena, a volte l’abbaiare di un cane. Sono arrivata davanti al mio portone. Non sapevo se lui fosse in casa o no, forse era in un posto dove l’avrebbero punito per quel che mi aveva fatto. Il portone si aprì e quando entrai vidi che ora indossavo il mio abito da sposa. La gonna era molto ampia e feci quasi fatica ad entrare nell’ascensore, la stoffa frusciò contro gli stipiti. Nella cabina l’abito era grande quanto il pavimento. La luce bianca pioveva dall’alto e illuminava la corolla quasi abbacinante della gonna candida intorno alla mia vita. Mi sono voltata per guardarmi nello specchio dell’ascensore, e ho visto che ero diventata giovane, giovane come allora, come quando meritavo un marito, quando avrei meritato dei bambini, un futuro migliore. Sono arrivata al mio piano, le porte si sono aperte e sono uscita sul pianerottolo. Vedevo la mia porta, lo zerbino davanti all’uscio, il nome di mio marito sopra il campanello. Sulle scale non si sentiva nessun rumore, se non un ronzio elettrico di fondo. Volevo vedere se la porta era aperta e sono entrata in casa. Il corridoio era buio, ma dalla sala in fondo proveniva il lucore di una televisione accesa. Mi sono avvicinata e mi sono affacciata sulla soglia. Lui era semidisteso sul divano, che guardava verso lo schermo del televisore, le palpebre semiabbassate. Avrei voluto dirgli che ero tornata, invece sono stata zitta. Ho fatto solo un passo avanti. Adesso la luce dello schermo investiva anche me. Non sapevo se lui mi vedesse, ho aspettato, e l’ho guardato fino a che lui non ha volto lo sguardo assonnato. Allora sono stata sicura che mi avesse vista. Ho pensato che mi vedesse uguale a me stessa sulla foto del matrimonio che avevamo sul comò della camera da letto; io ero uguale, ma non c’era lui al mio fianco. Non ha parlato, e neppure io. Solo ho continuato a guardarlo. L’ho guardato negli occhi, e poi ho scavato nei suoi occhi, sono andata oltre il suo sguardo, oltre alla sua indifferenza, oltre alla sua sorpresa, oltre alla sua paura; ho scavato oltre ai suoi ripugnanti occhi, oltre alla sua fetida violenza, sono arrivata fino in fondo, dove non c’era più nulla, e allora ho visto che ha capito: che sarei tornata ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora; che mi avrebbe visto finché i vermi non avessero divorato i suoi occhi; che un tempo io l’avevo amato. L’avevo amato per nulla, e ora lui sapeva quanto.