L’ANGELO DIVELTO DELLA METROPOLITANA

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Il lavoro mi attende come al solito, dall’altra parte della città. Ci penso. E intanto la guardo.

Una volta, avevo l’abitudine di leggere qualcosa. Solitamente un giallo, o un saggio poco impegnativo, di quelli scritti dai divulgatori di vaglia. Quei libri concepiti per farti sentire strutturalmente ignorante, sì, ma in via di guarigione. Adesso invece gioco con lo smartphone; non riesco a leggerci le mail, i giochi mi tediano, cerco perfino di barare al solitario (ovviamente invano).

Ecco perché, adesso, mi resta più tempo per guardarmi in giro. Come effetto collaterale dell’aver smesso di leggere in metropolitana, mi sto formando una cultura sulle persone in carne e ossa. Prima nemmeno le notavo, perso com’ero tra i miei libri; mi gustavo i mille segreti della lince iberica, o le gesta di quell’imperatore che conquistò nazione dopo nazione e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione, come mi racconta Vecchioni in cuffia, ispirato come sempre.
È così che ho visto lei. Non so come si chiami, e in fondo non è che m’importi. Ma ho immaginato la sua storia; non credo di sbagliarmi, perché ogni mattino tempero a fondo il mio spirito d’osservazione.

C’è sempre un uomo, ad accompagnarla in metropolitana. Credo sia il suo ragazzo, o piuttosto il “compagno”, data l’età non freschissima. All’apparenza, è parecchio geloso. Non l’abbraccia ma la cinge; non l’accarezza ma la leviga. Più che accompagnarla, se la porta dietro con un freddo ma tenace attaccamento, come se fosse un oggetto altrui appena pignorato.

Lei è bella, anche se pare precocemente sfiorita. Ho qualche remora a definirla “attraente”. Non è una di quelle quarantenni dall’aspetto sbarazzino; piuttosto, sembra una trentenne che a ogni compleanno inanella due anni. E di sbarazzino non ha niente. È alta, coi tacchi supera il metro e ottanta; un’altezza che perfino nella Milano dai mille retaggi longobardi ti attira parecchi sguardi maschili. Abbonda nelle forme, anche a motivo degli abiti troppo fascianti, e per di più traslucidi. Affiancata al suo compagno, fanno due persone normali, perché invece lui è magro, molto magro. Ha una muscolatura nervosa, da pugile delle categorie inferiori. Vent’anni fa avrei pensato che avesse qualche problema di spade, o pere, o come le si vuol chiamare; oggi, però, quello non è più un pensiero comune, e lui pare semplicemente ossuto.

Pare quasi che si aggrappi a lei, con forza; ha l’aggressività strutturale delle case dei centri storici, quelle che si appoggiano le une alle altre per non franare, e nel farlo si condannano a un’infinita dipendenza, a un tragico mutuo soccorso.

Quando scendono alla loro fermata, che è anche la mia, la risucchia fuori dal vagone, sempre troppo velocemente. Tagliano perfino la strada ai ragazzini, i veri professionisti della fretta inutile. Lui la tira, quasi la strattona, la infila più o meno a forza su per la scala mobile, e intanto le parla nell’orecchio. Sembra pronunciare parole suadenti, ma quando intravedo i suoi denti il mio cervello registra un’immagine incongrua. Come se le parole non si conciliassero col tono. Sì, pare che la stia minacciando, ecco. O almeno, nel migliore dei casi, pare che le stia leggendo il mondo coi suoi occhi, come se volesse proteggerla costruendole intorno una barriera. Sarà per una questione ancestrale di sopravvivenza, però anche un perfetto estraneo come me lo percepisce chiaramente, l’odore della violenza.

Era un martedì, il giorno in cui finalmente incrociai lo sguardo di quella donna. Ricordo che avevo la borsa della palestra in mano e questo mi impediva di twittare come un adolescemo. Fissai quei due occhi nocciola, impegnati a guardarsi in giro. Taceva, mentre le braccia minacciose del compagno l’avvinghiavano. Sono sicuro che lei stesse cercando attenzione, un cenno, un gesto. Lo cercava tra gli estranei, come se amici e parenti non servissero a nulla, per una storia del genere. Come quando confidiamo a perfetti sconosciuti i lati oscuri della nostra vita, quelli che i nostri migliori amici mai conosceranno, nemmeno da lontano.

Mentre la osservavo, lei mi ricambiò. Il suo carceriere mingherlino era distratto da qualcosa, forse dalla nuova pubblicità che era appesa al corrimano e che lui scagliò via con un colpo di nuca nervoso. Ci incrociammo per cinque, lunghi secondi. Mi guardava con brama, ma non certo per sedurmi. Ero sicuro che tentasse di trasmettermi un messaggio via pupille, giudicandomi l’unico ripetitore delle sue onde radio personali.

Il mingherlino percepì che lei aveva attivato un radar oculare. La fissò con gli occhi per due fermate, tacendo. Lei sostenne lo sguardo in modo intermittente. Quando uscirono, seguiti a ruota dal sottoscritto, lui le avvolse il mento con le cinque dita della mano destra, come se tenesse in mano il teschio di un nemico ucciso in battaglia più che una testa unita al resto di un corpo vivente.

Lei taceva, io pure. Mi sentii vigliacco, ma del resto che potevo fare? Continuai a tenerli d’occhio, mentre loro salivano la scala mobile. Il mingherlino scelse il gradino precedente il suo. In quel modo la superava in altezza per un soffio, nonostante lei portasse tacchi vistosi; visibilmente malvolentieri, tra l’altro. La folla li inghiottì e, per quel giorno, li allontanò da me.

L’indomani, la prudenza mi suggerì di portarmi un quotidiano. Raccolsi un Corriere usato ma tenuto bene. Per l’esattezza era il supplemento economico, ricco di gossip finanziario (lui compra lei; lei si fa acquisire da lui; loro due colti dal fotografo a scambiarsi azioni di nascosto, a fine CdA). Ma l’ampio foglio mi serviva soprattutto per guardare senza farmi vedere.

Anche quel giorno rividi la strana coppia. Incredibile quanto fossimo abitudinari, tanto da trovarci quasi sempre sullo stesso treno della metro e nello stesso vagone: circostanza quasi impossibile, in natura.

A meno che proprio non la si cerchi.

Lei era sempre vestita in modo abbastanza vistoso, più adatto all’ora dell’aperitivo che a quella del cappuccino. Il suo vestito grigio di ciniglia, aderente anzichenò, catturava l’attenzione.

Quel che non avevo visto fu la macchia scura sotto l’occhio destro. E un lampante livido sull’avambraccio sinistro. Tre fermate dopo ne notai uno pressoché speculare, sull’avambraccio destro. Procurarsi un ematoma e due lividi – proprio lì, poi – cadendo a terra in cucina? No, impossibile dare la colpa ai pensili.

Se non avessi ancora intuito cos’era successo, me l’avrebbe rivelato il suo sguardo. Anche quel giorno capii che mi stava cercando: al vedere i miei occhi, seminascosti da un ponderoso articolo sui destini dell’ENI, le sue sopracciglia guizzarono. Con un movimento brusco il mingherlino l’avvicinò. La fece ondeggiare pericolosamente, quando entrammo in velocità sulla curva tra Buonarroti e Pagano, dove i due rami della metro si riuniscono dopo la biforcazione.

Li rividi ancora il giorno dopo. Stavolta erano nel vagone accanto al mio e non sapevo se la ragazza mi avrebbe scorto. Infatti ero riuscito a sedermi, grazie al discutibile privilegio del salire in estrema periferia, dove il convoglio arriva semivuoto e i sedili sono ancora gelidi per la bruma del mattino. Subito sopra il ginocchio, tra gli stivali e la gonna, un altro livido faceva capolino, e nemmeno lì potei pensare a una caduta. L’ematoma sotto l’occhio non accennava ad assorbirsi. Anche quel giorno, il mio angelo divelto della metropolitana venne trascinato fuori dal vagone. Su per la scala mobile, il suo nervoso compagno eseguiva movimenti bruschi, le ringhiava sibilante all’orecchio, la stringeva e ne penetrava lievemente la carne con la mano, disegnando solchi sul tessuto attillato del vestito. Io sempre lì dietro, senza trovare il coraggio di staccarmi né di guardare negli occhi quell’uomo. Imperterrito, continuava a fissare il suo ostaggio in forma di ubertoso corpo femminile.

Nei dieci giorni seguenti, salvo due o tre volte, li vidi sempre lì, sempre allo stesso posto, sempre planati su due mondi diversi ma fusi tra loro. Il livido intorno all’occhio si era ormai quasi dissolto, ma il labbro inferiore era diventato improvvisamente blu.

–        Lo vedi, Elena? Lo vedi? Mi pareva di avertelo detto chiaro. Ma tu, niente.

Fu l’unica frase che riuscii a cogliere, nel diffuso scalpiccio di piedi troppo veloci per indossare scarpe eleganti. Non era la frase che avrei voluto sentirmi dire. Visto come negava con la testa, decisamente e recisamente, sembrava che nemmeno lei fosse d’accordo. Pareva che tentasse di spiegare, di giustificarsi, di puntualizzare, ben sapendo che tanto non l’avrebbe creduta; e che alla sera, se non prima, avrebbe pagato il conto di chissà quale sua tremenda insubordinazione.

Adesso sudo, sudo profondamente. Ho un desiderio crescente di cambiare treno, di spostare la sveglia anche solo di cinque minuti avanti o indietro, di posizionarmi in un altro vagone, di rimettermi a leggere un libro sui Sumeri o un giallo di Ellery Queen, di quelli tranquillizzanti. E invece no. Un’altra parte di me mi spinge a restare lì, a capire cosa stia succedendo, a saperne di più. Col passare dei giorni comincio sempre più a sentirmi colpevole, o se non altro complice. Dopo tanto parlare di violenza, ecco: mi ci trovo immerso anch’io, al mattino, tutti i giorni. Una violenza a domicilio, fresca come le brioche del bar di Beppe. Una violenza che oggi raggiunge lei ma domani potrebbe raggiungere me, mia figlia se l’avessi, la mia vicina di casa se facesse una scelta azzardata.

Dopo un mese la morsa al mio collo è fortissima. Al mattino sono preda dell’angoscia; la osservo quasi tutti i giorni ma nessun altro sembra accorgersene. Non finisce nemmeno in quell’incrocio di sguardi che unisce gli sconosciuti sui mezzi pubblici, soprattutto quando i controllori – pardon: verificatori – fanno (o non fanno) il lavoro per cui sono scarsamente pagati.

Usciamo dalla metropolitana e – lupus in fabula – li vedo, i verificatori. Poco male: il biglietto ce l’ho, e sono lieto per tutti coloro che non pagano e viaggiano a spese mie. Però i due uomini lasciano passare tutti. Non controllano nemmeno. Mi chiedo cosa ci stiano a fare, quale sia la loro utilità. Di certo il mingherlino dal ghigno cattivo passerà, penso, perché lui è di certo un buon cittadino, provvisto di regolamentare ticket.

Invece lo fermano.

Soltanto lui; lo agguantano e un po’ lo strattonano. Bloccano anche lei, ma poi l’accompagnano dolcemente in un cantuccio, dove altri due uomini in divisa – non sembrano proprio controllori – la invitano a parlare, forse le offrono un caffè.

Lui parla, parla ad alta voce; uh, quanto parla. A un certo punto prende a sbraitare e sono costretti a immobilizzarlo in due; è forte, proprio come un galletto, o come un magro ma pestifero peso piuma.

Quando mi fermo col pretesto di ritirare un giornale gratuito, senza nessuna intenzione di leggerlo, vedo che lo portano fuori e lo caricano su una pantera. Lui protesta, e allora gli infilano dentro la testa senza grandi complimenti. A quel punto non protesta più.

Lei piange, ma di un pianto che pare soddisfatto. Mi guarda mentre le sfilo davanti.

–       Grazie – mi dice. Lo intendo perfettamente, non mi sono sbagliato.

Perché “grazie”?, mi chiedo. Non ho fatto niente. Né io né gli altri. Non abbiamo proprio fatto niente.

E quel grazie mi ferisce come una lama, perché non me lo merito per nulla.