LA COLLINA

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 “ Non c’è giustificazione …
ricorda .. non c’è giustificazione alla violenza …
nessuna giustificazione
”.

 

C’era una volta … mia nonna Irma. Aspettavo l’estate tutto l’inverno, per potermi recare nella casa ai piedi della collina. Un casolare robusto con una grande cantina, in cui si viveva per sfuggire alla calura d’agosto.
Nonna Irma era una donna sola, aveva cresciuto sua figlia da sola e non sentiva il desiderio di avere qualcuno accanto: l’esperienza della guerra aveva lasciato in lei un solco profondo e non solo sul viso.
In quei luoghi mi sentivo libera, potevo diventare la regina delle amazzoni,  tra le canne di bambù; con la bicicletta correvo a perdifiato fino alla piazza del paese,  dove i bambini mi aspettavano per giocare a mondo o cucinare  le torte di fango: le più buone della terra.
Ricordo che un giorno tornai a casa con un occhio pesto: cercai di spiegare alla nonna che, quel prepotente di Luigi, aveva fatto cadere la mia  bicicletta nuova e quindi io gli avevo dato uno spintone facendolo precipitare a terra, lui di tutta risposta mi aveva sferrato un pugno proprio sullo zigomo; senza pensarci neanche un istante gli avevo piantato un calcio là, dove sapevo  avrebbe fatto più male; se l’era meritata…Lei mi guardò profondamente negli occhi e disse: “ Nessun oggetto, nessun discorso,  nessun pensiero giustifica un atto di violenza, neanche la tua bicicletta nuova.. Non ci sono scuse.”  Io comunque avevo ragione.
La sera, seduta sulle sue ginocchia, davanti al portone aperto della casa, l’interno della quale era nascosto da una tenda verde, ascoltavo le storie della collina.
– Sulla collina- narrava- si sentono bisbigli e parole sommesse.
Io chiedevo se fossero fantasmi e la nonna rispondeva che erano racconti … racconti  di persone abbandonate a se stesse.
– A volte le voci fanno paura e allora ci si tappa le orecchie con le mani, si gira canale per non vedere, si mette la musica a tutto  volume per non sentire; ma le voci sussurrano al cuore e non si può non ascoltarle.
Adesso che la nonna non c’è più e io sono una donna, ho deciso di andare sulla collina.
Mi arrampico faticosamente lungo una stradina irta e abbandonata da tempo: nessuno sale più là in alto, nessuno crede più che, nel cammino verso il terzo millennio, queste voci esistano ancora. Arrivo in una radura, gli alberi lasciano intravedere … qualcosa … qualcuno …
Qui il tempo si è fermato. Il cancello arrugginito si apre con un sinistro cigolio. Tra gli autobloccanti dei vialetti crescono ciuffi d’erba ingiallita dal susseguirsi delle stagioni. Mi guardo intorno e, nascoste tra le pieghe dei sassi, leggo storie dimenticate, impigliate tra i rami. Mi avvicino lentamente ad un angelo con un’ala sola e ascolto il frusciare del vento tra le foglie:
“Mi chiamo Maria, mi sono sposata nel duemilaotto a ventidue anni. Il mio compagno è gentile e sensibile, mi accompagna ogni giorno al lavoro e mi viene a prendere.
Mi sono innamorata di lui per una rosa rossa, non un unico fiore ma una pianta intera.
L’ho posata sul balcone della nostra casa, tra i profumi del rosmarino e della santoreggia.
Era avvolta in un sacchetto di carta del pane, l’ho estratta delicatamente per non rompere neanche una spina e l’ho infilata nella terra umida e ambrata, nell’enorme vaso che avevo acquistato per lei.
Ci ricorda ogni giorno il nostro amore.
Io e il mio compagno stiamo bene insieme.
Facciamo lunghe passeggiate mano nella mano.
Non vuole che guardi gli uomini che passano è un po’ geloso e questo mi lusinga.
Vuol dire che mi ama.
La casa diventa il nostro nido e lui mi vuole tutta per sé.
La notte si risveglia sudato e affannato, impaurito come un uccellino in gabbia, mi fa giurare che non lo lascerò mai.
Io gli accarezzo i capelli e lui si addormenta sul mio seno.
Passiamo molto tempo da soli io e lui.
Gli amici si allontanano perché è geloso degli sguardi che giudica indiscreti e delle amiche che mi portano sulla cattiva strada.
Il suo amore è come un cuscino di piume bianche e leggere, a volte mi sostiene e mi fa sognare; a volte si posa sul mio viso fino a bloccarmi il respiro.
Mi accompagna ogni giorno al lavoro e mi viene a prendere, durante il tragitto mi chiede di tenere gli occhi bassi, di non guardare e non provocare: io sono solo sua.
La rosa sul davanzale cresce rigogliosa.
Quel giorno ero andata da sola a fare la spesa nel supermercato sotto casa e mi ero trattenuta a parlare con la mia vicina, che ancora non conoscevo.
Entro in casa e lo trovo sconvolto sulla poltrona ad aspettarmi, il pavimento è cosparso da pezzettini rossi, che assomigliano a mille gocce di sangue: è la rosa strappata, divelta dalla sua terra e ridotta in minuscoli frammenti ….
Mi abbraccia forte, mi chiede di non lasciarlo più solo per così tanto tempo; ha avuto paura, tanta paura di perdermi. Lo consolo, gli faccio capire quanto lo amo … un bacio lungo un respiro diventa una stretta serrata, che mi comprime come una morsa d’acciaio.
Il silenzio è ormai il nostro discorso preferito.
Senza più fiori, privata delle sue foglie e del suo odore, la rosa rossa appassisce sul balcone.
Piango, la raccolgo, la depongo nella pattumiera del nostro appartamento.
Mi accompagna ogni giorno al lavoro e mi viene a prendere.
Niente più passeggiate mano nella mano.
La casa diventa la mia prigione e le stanze sono vuote e fredde, senza amore. Allora decido di parlargli, di aprire il mio cuore: non si può andare avanti così, questa non è vita e il nostro amore sta morendo; ma la discussione diventa violenta e sono costretta a chiudermi in camera da letto.
Forse ho esagerato, dovevo essere più discreta … Sento il suo respiro dietro la porta,  mi chiede perdono, dice che non accadrà più … non voleva … e comunque anche io dovrei sapere quanto mi vuol bene, dovrei rispettare il suo amore così immenso e unico.
Il giorno dopo non vado in fabbrica, non saprei cosa dire, come spiegare quei segni sul viso.
Penso al fiore appassito nella spazzatura, a quel profumo sepolto tra i resti di cibo andato a male.
Scendo le scale in fretta, mi avvio verso il fioraio e acquisto una magnifica pianta dal cuore rosso.
Il nostro balcone si ricolora, ma quando guardo quel bocciolo, che ancora deve spuntare, capisco che non sarà mai più quello di prima.
Mi accompagna ogni giorno al lavoro e mi viene a prendere.
Il tempo passa e nulla cambia, tra urla, grida, pianti, perdoni e incomprensioni, i giorni si susseguono sempre uguali. Finalmente mi guardo allo specchio: la tristezza è dipinta sul mio viso, niente trucchi … solo sofferenza. Mi sento vuota, inutile, stanca …
Ho paura di affrontarlo allora lascio un biglietto: “ Mi dispiace”.
Cammino lentamente sotto una pioggia sottile, distinguo le mie lacrime dall’acqua solo dal sapore salato. La strada è quella della mia vecchia casa … mia madre mi aspetta, mia madre sa …
Nel tragitto mi accorgo di non riuscire ad alzare gli occhi da terra è l’abitudine …
Sono inquieta penso a lui e mi dispiace … ma il ricordo degli schiaffi inutili mi rassicura. È giusto così!

E’ tardi e lui sarà arrivato a casa. Il telefono squilla … ha saputo … piange … vuole che torni, ma io non posso e allora m’insulta, urla … Mi dispiace.
Per giorni la sua figura si staglia davanti alla casa di mia madre come un’ombra oscura, così io sono ancora una volta sua prigioniera, segregata dalla paura.
Mia madre mi accompagna ogni giorno al lavoro e mi viene a prendere.
Il telefono manda messaggi offensivi, mi dispiace e sono terrorizzata … Gli chiedo ripetutamente di firmare le carte della separazione.
Ti prego … lasciami libera … lasciaci liberi.
Chiedo aiuto ma poche persone prendono la cosa sul serio:
Passerà …
Abbi pazienza …
Ci vuole tempo per queste cose.
In fondo ti vuole bene.
Mia madre non risponde alle mie domande, è preoccupata ma non capisce e attende.
Una mattina squilla il citofono: è lui. La sua voce è calma, tranquilla sembra il ragazzo sensibile di cui ero innamorata; dice che ha capito, sa che ha bisogno di aiuto e firmerà la separazione.
Mi chiede di scendere nel portone.  Ho quasi voglia di riprovare … ma ho paura. Passo un po’ di rossetto sulle labbra, raccolgo  i capelli per non farlo arrabbiare, mi diceva sempre che lasciare i capelli sciolti è segno di civetteria …. in fondo ci siamo voluti bene.
Scendo le scale con le carte in mano, sono serena, la sua voce è così morbida.  Apro il portone con il sorriso sulle labbra. Sento un dolore improvviso e lancinante …  mi chiedo da dove venga, mi tocco con le mani il cuore e percepisco un calore appiccicoso e un odore nauseabondo, mi viene da svenire.
Mentre chiudo gli occhi, lo intravedo con un coltello in mano e penso Mi dispiace …”.
Mi sveglio accoccolata su un tappetino verde, tra le mani lo scheletro di una rosa rossa, una lacrima scende sul mio viso. Strappo i fili d’erba che ricoprono il nome sulla lapide e lascio che il sole lo inondi di calore.
Riprendo il mio cammino lungo i sentieri di questo paese senza nome, cerco di farmi strada tra i rovi, cresciuti a dismisura per non permettere al mondo di vedere la tristezza e la solitudine di queste vite spezzate. Il profumo di fiori d’arancio mi conduce sotto una zagara bianca. Mi siedo, abbasso le palpebre e percepisco il canto del mare lontano.
“Mi chiamo Giada frequento la prima liceo di un paese vicino al mare. Al termine della scuola mi piace correre con i miei compagni sulla spiaggia,  fino alla riva e tuffarmi tra le onde.  Amo sentire la musica a tutto volume e vestirmi alla moda,  con i Jeans attillati e le magliette che lasciano intravedere la pancia. Sono molto coraggiosa, mi sono appena tinta i capelli di rosso per andare a una festa. Attraverso la strada felice: ho promesso ai miei genitori che tornerò a casa presto …. Mi dispiace che mi stiano ancora aspettando …”.
Tutto questo è assurdo … in cima a questa collina sento discorsi di donne che chiedono soltanto di essere ricordate, la loro voce è la mia voce; mille storie di questo secolo appena cominciato e già così amaro.
Ormai è pomeriggio e io cerco di togliere la ruggine dalla  statua di una giovane, inchinata a raccogliere una spiga di grano:
“ Mi chiamo Irina sona nata in Ucraina ventiquattro anni fa. Sono venuta in questo paese, con i miei sogni nella valigia, per trovare un po’ di serenità. Chiusa in quel camion pensavo al futuro, al lavoro e ai miei figli che presto mi avrebbero raggiunta. Quella strada non era sicura e io volevo soltanto riavere la mia dignità. Mi dispiace di non esserci riuscita”
… di fianco una piccola scultura bianca, con il disegno di un albero di Natale e un CD di musica POP appoggiati sopra:
“Mi chiamo  Lina, ho sedici anni: io ero sola … loro erano in tanti”.
Percorro pochi passi …  un velo impigliato ad un ramo sussurra parole inizialmente incomprensibili per me poi,  lentamente, quei suoni acquistano significato:
“Mi chiamo Miriam ho voluto togliermi il velo e amare un uomo straniero. Mio padre e i miei fratelli non erano d’accordo …”.
MI  gira la testa … sento sussurri ovunque … percorro di corsa un lungo tappeto rosso, al termine del quale un elegante vestito azzurro mi attende …
“Mi chiamo Ethel: non ero mai abbastanza magra per le sfilate!”
Mi chiamo … Mi … Mi…. dispiace.
All’improvviso mi accorgo di non essere più sola, uomini e donne, sono saliti fin quassù per cambiare l’aspetto del luogo: ripuliscono statue e piantano rose rosse,  togliendole dal sacchetto del pane, si chinano ad ascoltare, strappano  erbacce, si scambiano sguardi; cantano nenie e canzoni come questa:
“Non aver paura/parla alla tua vicina/all’amica che ti sta accanto/alla guidatrice del tram, alla fioraia/alla professoressa, all’incantatrice di serpenti/alla zingara che legge la mano, alla donna con il velo/alla madre con il figlio, alla passeggiatrice, alla strega. //Non aver paura/esci di casa /e sussurra nell’orecchio/di ogni donna che incontri//Alza la testa /solleva le braccia/e urla il tuo dolore. //Non aver paura/non aver vergogna/di dire al mondo /la rabbia che hai dentro/la tua storia è la loro storia. “
Anche il mio compagno mi ha raggiunto sulla collina e mi tiene la mano quando si ode l’ultimo tenue sussurro:
“Mi chiamo Irma e sono stata violentata dalle SS, in un campo di concentramento ….  Non c’è giustificazione … ricorda .. non c’è giustificazione alla violenza … nessuna giustificazione”.