IL BUCO

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1

Adesso tremava. Nel buco.

In solaio l’aria era sudata e appiccicosa. Ma ci era abituata e non voleva muoversi da lì. Se l’era inventato lei quel posto: la salvezza.

 

2

Un anno prima si stava nascondendo. In quel periodo le capitava spesso. Stanca di affrontarlo e di inventare un modo efficace per coprire il viola delle percosse.

Prigioniera nella sua casa.

 

Lui pensava che le sfuggisse, in qualche modo, e scappasse da sua madre.

Incassava il colpo. Non capiva che una madre che si vede arrivare una figlia piena di lividi, poi, al pranzo della domenica, non poteva essere così premurosa nei suoi confronti.

Stupido.

 

Ma lei non scappava.

Si nascondeva: per capire, per sfinimento, per paura.

Più avanti, scoprì che sbagliava.

 

Ma lo amava.

 

Poi lui sbolliva la rabbia, e lei, la mattina, era ancora al suo fianco. Le prime volte lui cercò perfino di scusarsi.

La fine, per lei. Quando si scusava le si apriva il cuore. Si alzava, andava in bagno sorridendogli. Si lavava i denti, attenta, con lo spazzolino, a non inciampare nel labbro, lacerato dallo schiaffo della sera prima. Il labbro che sbatte sul dente e si rompe come carta velina.

L’anello al dito ad aumentare il danno.

La fede.

 

3

Adesso tremava. Nel buco.

Dopo un anno l’aveva fatta grossa, lei.

Pensò alla prima volta che la picchiò.

 

4

Era sera.

Lui arrivò come una furia. Una accozzaglia di retaggi primitivi: il peggio della storia dell’uomo, del maschio, in un unico corpo.

La porta sussultò, il braccio la fece ribattere sugli stipiti, lacrimando per il colpo preso.

«Dove sei!?», sbraitò.

L’urlo la cercò per tutta la casa.

«Sono qui, che succede?», preoccupata. Non per quello che le sarebbe successo.

Preoccupata: l’uomo che amava era rientrato da una sera con amici con un urlo, non con un bacio o un abbraccio.

«Cosa sei andata a dire?», inveiva, agitandosi come un invasato.

Lei titubava. Lui entrò in stanza. Lei capì.

L’uomo che amava si era trasfigurato: gli occhi, spalancati e ubriachi, che lei non gli aveva mai visto. Pieni di disprezzo.

 

5

Nel buco ricordava solo l’inizio e la fine del litigio.

 

6

L’inizio.

Lei, giorni prima, al loro amico Paolo, aveva detto che lui, la bestia, quando si attaccava alla playstation diventava un bambino in un corpo d’adulto. Con un sorriso: sapeva che era così per tutte le sue coetanee coi propri compagni. L’amore è cieco.

«Mai come me», rispose Paolo, «Silvia, quando accendo quell’aggeggio, esce sempre con le amiche».

Vita a due. Niente di che. Basta non superare i limiti.

La questione saltò fuori con i suoi amici. Sfottò e risate. Normale. Ma lui si sentì ferito, umiliato. Per colpa sua.

In realtà non era solo quello il motivo. Lei lo capì più avanti.

 

La fine.

Un pugno sul fianco. Improvviso. Il respiro che non sale. L’atterraggio crudo: ginocchia e mani sul pavimento. E un calcio in pancia, che la fece distendere a terra.

Rimase lì, dolorante, ma dentro era peggio.

Si rannicchiò, gli occhi umidi.

Lui se ne andò, come se avesse appena finito di pisciare con la tazza abbassata. Non come uno che ha appena ammazzato di botte la donna che ama. Per un motivo idiota.

Sul pavimento, lei sentì qualcosa nello stomaco: arrivò al cervello, al cuore e infine all’anima.

Una sensazione che distruggeva il sogno di una vita insieme, di un futuro.

Un nome preciso, agghiacciante: paura.

Aveva paura.

 

7

Adesso tremava. Nel buco.

Aveva fatto quello che doveva fare. L’aveva fatta grossa.

Quante volte aveva usato quel nascondiglio. Troppe.

 

8

Il buco era in solaio: scatoloni, scaffali, libri e quant’altro di polveroso. C’era anche un vano. Un metro per un metro: un buco. Dimenticato dai muratori.

 

Quando lo usò la prima volta fu per caso.

Era in soffitta, sentì la porta sbattere. Dopo mesi, aveva associato il rumore dell’uscio ai pugni e ai calci: un segnale.

Alzò gli occhi al cielo, scese una lacrima. Non voleva affrontarlo: non ce la faceva più.

Sentiva i passi e le urla. Sarebbe arrivato anche lì, e, vista la porta del solaio aperta e la scala appoggiata, avrebbe capito dov’era.

Rabbia e dolore. L’anima lacerata.

Vide il buco, tra gli scatoloni, una vecchia TV, le pinne e l’ombrellone, per le ferie, insieme. Loro due.

Ci saltò dentro. Tirò davanti uno scatolone. Ragnatele le piovevano in testa. Odiava i ragni.

Ma in quel momento odiava di più lui, anzi: non lo odiava.

Non ancora.

 

Sentì i passi sulla scala, i «dove sei, stronza?!», «sei scappata ancora?!», tuonavano. Ma non entrò in solaio. Vi infilò la testa, diede un occhio. Niente.

Lei capì che lì c’era un rifugio. Per capire. Per nascondersi, dall’uomo che amava.

Che amava?

Anche quello doveva capire.

 

9

Adesso tremava. Nel buco.

Anche se fuori il cielo era azzurro e dalle tegole filtravano lame di luce. Spruzzi di polvere brillavano nel sole. Seguì una lama con lo sguardo, fino al pavimento. Vide un insetto. Ribaltato. Stava morendo, sotto il suo stesso peso.

Una cimice.

Non riusciva a tornare dritta, non aveva la forza per vivere.

Pensò alla forza. Che serve. Tanta. A volte la si ha, a volte no.

Si innamorò di lui anche per la sua forza. Si ricordava come se fosse ieri quando pensò: «lo amo».

 

10

Era estate.

Il mare, una spiaggia, ragazzi che scherzano in acqua. Lei non amava le onde. Ma poteva starsene in disparte, quando tutti si divertivano e la invitavano a gettarsi?

Lui capì. Già si piacevano, si cercavano sempre: con lo sguardo, gli sfioramenti, le battute.

«Non preoccuparti», disse, «ti tengo d’occhio io». Protettivo.

Lei, rassicurata, si gettò.

Il vento salì di tono. Nessuno ci fece caso.

Una, due, tre onde presero forma di drago. Alcuni di loro, ribaltati troppo nella sabbia, andarono agli asciugamani, invitando anche gli altri a farlo.

Lei, ben felice, si apprestava a seguire il consiglio, ma fu colpita da un onda. Si trovò sott’acqua.

Panico. L’unica cosa da evitare, nel mare e nella vita.

Il cuore scavalla i normali battiti, si apre la bocca: acqua salata entra, poca. Al panico sembrano secchiate.

Poi una morsa al braccio. Una forza la stava tirando fuori dai flutti.

Era lui. Sempre vicino. Deciso e delicato come l’amore.

Lei capì che l’amava.

«Ti tenevo d’occhio».

«Anch’io», rispose.

 

La sera si amarono, sulla spiaggia. Fu un sogno.

 

11

Adesso tremava. Nel buco.

Tutta quella forza, possibile muro a difesa del loro amore, le si ritorse contro.

Fissava la cimice.

 

12

Iniziò tutto per quello stupido motivo: un videogioco. Pensava, all’inizio.

Sbagliato.

Nel buco capì che la causa scatenante non erano state le battute degli amici, ma perché lei si era permessa di parlare di lui, senza consultarlo, ad altri.

Di agire come se lei e lui fossero uguali.

Capì che, per lui, non erano uguali.

Lui aveva libertà assoluta di fare e disfare, se lo faceva lei scattava la punizione.

Si rese conto che non era quasi mai ubriaco quando la picchiava. Era lucido.

Lui aveva una scala di valori che prevedeva questo.

Il punto di non ritorno: era premeditata e voluta la punizione.

Per questo poi, al lavoro, con gli amici, dalla suocera, era affabile e piacevole.

 

Non sarebbe mai stato diverso da così.

 

Una scala di valori distorta. Per colpa di chi? Genitori? Infanzia? Non le interessava saperlo: non voleva guarire un uomo, non sapeva farlo.

Voleva avere un compagno. Vero.

 

Ognuno ha dei valori. Se ci allontaniamo da essi i nostri istinti ci dicono che la via non è quella giusta. Nell’inconscio. In fondo. Dove i nostri demoni ci governano.

E lui aveva questo valore: lei è inferiore. Va punita.

Nessuno sarebbe stato capace di estirparglielo, questo valore marcio.

Quando lei comprese questo, fece quello che doveva fare.

 

Anche perché, stamattina, lui aveva un ombrello e la vergata le sfiorò la tempia. Meno male. Ma le fracassò la fronte. Sangue sul pavimento, sul tavolo. Sull’anima. La camicetta bianca piena di rosso vischioso e di lacrime.

La portò al pronto soccorso.

«Se parli sarà peggio». Perentorio.

Lei inventò una scusa. Inferiore.

 

Lui andò al lavoro.

Lei a casa. Ma aveva deciso.

 

Chiamò la madre, le spiegò.

Chiamò i carabinieri, gli spiegò.

Chiamò lui e disse:

«Me ne vado. Ho chiamato mia madre, i carabinieri. Ho detto tutto. Non voglio vivere un secondo di più della mia vita con uno come te.

Non ti amo più».

 

Silenzio.

Poi un boato.

La porta!

Per qualche motivo, ora superfluo, non era al lavoro.

Lei era su, al secondo piano, vide la scala appoggiata.

Il buco!

 

13

Adesso era lì. Nel buco.

 

14

Lui giù, che sbavava. La cercava. Solo la morte glielo avrebbe impedito, dopo quello che le aveva detto. Trenta secondi prima.

Sul display del suo cellulare un fisso: era a casa. Non poteva scappare. Non ne aveva il tempo.

 

Lei fissava la cimice. Se nessuno l’aiutava, sarebbe morta.

Appoggiò l’unghia sul fianco dell’insetto. Diede un colpetto. Non si girò. Le zampe annaspavano nell’aria. Riprovò. Niente.

 

Da giù le urla salivano: la bestia era nel pieno della sua vigoria, supportata dalla convinzione che era giusto così.

 

Ma, chissenefrega: lei doveva salvare la cimice.

Appoggiò il polpastrello dell’indice alle zampe, con una grazia che solo un cuore pieno d’amore può avere.

L’insetto, sentito qualcosa a cui aggrapparsi, lo fece. Senza chiedersi se fosse il becco di un uccello predatore, un ragazzino intenzionato a schiacciarlo o la salvezza davvero.

La vita era lì: doveva rischiare.

Lei girò il dito, vide lo scudo della cimice. Magnifico: splendevano i toni oro e castano delle foreste antiche, il blu degli oceani e intarsi che solo Madre Natura può donare.

Brillava nel sole.

Pensò di scorgere una forma di cuore.

Pianse.

L’insetto turbinò le ali, ma non volò.

Stette lì. Per quanto? Chi lo sa?

La stava ringraziando.

Poi seguì il sole, infilandosi tra le tegole, scomparendo.

 

Pianse e capì: lei doveva ringraziare la cimice. Aveva fatto la cosa giusta.

Lei era la cimice.

Lei era bellissima.

Lei doveva brillare nel sole.

Ma adesso era con le ali schiacciate.

Aveva bisogno di aiuto.

L’aveva chiesto.

 

Scricchiolii la riportarono alla realtà. Stavolta saliva: avrebbe distrutto la casa prima di andarsene. Ogni buco.

Lei trovò una forza inattesa. Sicura che avrebbe ricevuto il polpastrello per salvarsi da chi aveva chiesto aiuto .

Doveva affrontarlo: l’ultima volta.

Spiò, vide una sagoma, ma anche una cosa che le fece gelare il sangue.

 

15

Non ne era certa.

Il sole illuminò il braccio, la mano e un oggetto luccicante.

Adesso era sicura: aveva qualcosa in mano e non sapeva come l’avrebbe usata.

«Dove sei? Non mi ami più? Bastarda!», gli occhi pazzi sibilavano ovunque. Si piantò davanti allo scatolone. Immobile.

Lei non sapeva se avesse capito, ma era tutto cambiato.

Dentro.

La cimice, la libertà, l’aiuto. Si rese conto che, dopo aver telefonato a sua madre, stava già meglio.

Condividere, ecco il segreto. Il coraggio ritrovato.

Era pronta a fare quello che aveva pensato nel caso l’avesse trovata. Il piano A era: nascondersi e sperare. Il piano B era: colpire.

Ma ora voleva che la trovasse.

Anche se nella mano luccicava qualcosa, qualsiasi cosa.

 

16

Successe tutto in pochi secondi.

Le sembrarono l’eternità.

 

17

Adesso non tremava. Nel buco.

Non tremava più.

 

18

Giunse le mani. Intrecciò le dita e pregò.

Lui andò a destra, ribaltò scatoloni, prese a calci roba.

Lei non fiatava.

Lui tornò, deciso, puntando la sinistra del solaio, poi si fermò di nuovo lì: davanti al buco.

Alle orecchie di lei arrivò un urlo, immondo, di gioia.

Una mano scardinò lo scatolone, mentre un piede scalciò brutalmente uno scaffale che crollò, con una vecchia televisione, che era sopra. Vetri sul pavimento, nuvole di polvere, ragni in fuga.

«Ci sei, puttana!», fremente, «ecco dove sparivi, brava! Ma adesso è finita!».

Artigliò i capelli. Un dolore inaudito le attraversò la cervice, come una lama di ghiaccio. Sentì addosso ancora quelle mani sudice e violente.

Non capì più niente.

Energia pura ormai, decise che il piano A non valeva più.

Piano B e basta.

 

Mentre lui la trascinava, come uno straccio, fuori dal buco, insultandola, lei partì.

Prima sollevò il viso. Per cinque secondi.

Voleva vederlo in faccia.

Lui si trovò gli occhi di lei, vitrei, brillanti, diamanti duri, verdi come foglia piena di rugiada primaverile, conficcati nei suoi. Ora lo odiava anche.

Spiazzato, si piantò come una statua.

Capì cosa aveva fatto per un anno? Capì che non c’era più paura dall’altra parte? Capì tutto?

 

A lei bastarono quei cinque secondi per ottenere due risultati.

Il primo: uno sguardo urlante, eterno, che diceva tutto, senza emettere fiato.

Il secondo: guadagnare tempo.

Cinque secondi.

Uno. Raccolse nel corpo il male dei colpi subiti. Da una vita.

Due. Unì a questo dolore l’energia della rinascita.

Tre.  Diventò uno scudo, magnifico, blu e marrone, mentre lame di sole s’infilavano tra le tegole e la facevano brillare.

Quattro. Partì, dal basso all’alto, con le sue mani in preghiera. Come mazza medioevale.

Cinque. Colpì.

 

19

Sentì una fitta lanciante alle nocche delle mani. Intuì che qualcosa andava all’indietro, pesante, goffa: la testa di lui. Le mani colpirono il mento. Lui, ancora pietrificato dallo sguardo, si sollevò da terra. Lei, piccola, piccola, lo sollevò.

Annaspò nell’aria, barcollando, cercando appigli.

Il buco e la porticina erano speculari.

Lui andava, all’indietro, come una barchetta risucchiata da una fogna. Il pavimento finì e lui centrò l’apertura.

Lei era ferma, le mani sulle ginocchia, debole. Rimettere insieme un altro colpo del genere? Impossibile.

Guardava la sagoma lottare con il pavimento e l’aria.

Lo vide scomparire nella porticina. Una mano arpionò il cavo di alimentazione del televisore, ormai rotto e tagliente, sperando che potesse sostenerlo. Illusione.

Vide scomparire anche il vecchio elettrodomestico.

Poi il tonfo. E il silenzio.

 

20

Dopo cinque minuti, si mosse. Decise che doveva andarsene.

Non aveva guardato giù, non sapeva com’era andata a finire, non che ne gliene importasse.

 

Ormai gli aveva detto quello che doveva dirgli.

Ormai aveva fatto quello che doveva fare: chiedere aiuto.

Ormai non lo amava più e non lo odiava più.

Ormai non c’era più.

Lui, per lei, non c’era più.

Qualsiasi cosa fosse successa giù.

 

Infilò la testa nell’apertura e guardò, una volta sola, dall’alto.

C’era una sagoma, sul fianco, immobile e una TV distrutta. Una macchia rossa. Un brandello di schermo macchiato, vicino alla nuca. Una lama luccicante.

Gli arti mal distribuiti: una marionetta buttata lì. Un polso girato toccava l’avambraccio, uno strano gonfiore al ginocchio: come se fosse uscita una rotula.

 

Scese la scala. Fece i pioli senza guardare mai verso il basso. Sentì il suolo, si voltò.

A testa alta, non per orgoglio: aveva paura. Non voleva guardare.

Sapeva che l’odore di morte che saliva dal pavimento era opera sua.

Sapeva che non le sarebbe successo niente: «Un incidente, credo, sa, non ero nemmeno in casa…sarà scivolato».

Ma sapeva che non era quello il modo.

Non ha avuto scelta. Aveva chiamato tutti, voleva risolvere. Nel modo giusto.

Non ne ha avuto il tempo.

Forse doveva farlo prima.

Forse doveva…

Forse…

Poi smise di pensare.

Si trovò al primo piano, vedeva la porta aperta e un bagliore. La lama di luce, che ha guidato la cimice verso la salvezza, ora era lì, fuori, che l’aspettava.

 

La libertà. La vita.

Nuova.