Ding Dong
“Buon giorno sono la Dottoressa, Guardia Medica”.
Il clic d’apertura dell’uscio di quella villetta bifamiliare rimbomba tra i campi di Rovello. Sono le 2:45 di una notte uggiosa di metà aprile.
Appena entrata il fetore di escrementi e piscio assale il mio olfatto che con un gesto di ribrezzo mi chiede di tornare indietro. Non posso, c’è una ragazza che sta male: crisi d’otite acuta.
Percorro le scale nel buio della notte, seguendo una luce lieve proveniente dal piano superiore. Per sopperire l’adrenalina che sento salire dalle gambe fin su alla gola, inizio a pensare di trovarmi all’entrata dell’ inferno di Dante e che quell’immagine scura che mi aspetta davanti all’ingresso sia solo Caronte. Un uomo magro, barbuto, scuro in volto sovrasta l’entrata dell’appartamento, non sembra essere allarmato, mi osserva con aria di superiorità. Con uno sguardo indica una stanza poi di nuovo mi immobilizza con gli occhi: sorrido. Si gira, si dirige verso la porta e la apre.
Una nuvola di fumo mi avviluppa come una soffice coperta, l’anidride carbonica mi occlude il respiro. Sdraiata su di un letto sporco nella penombra, intravedo una sagoma esile di un corpo seminudo, avvolto solo da una camicetta sbrindellata. Il viso è sciupato, le occhiaie sono pesanti sotto quelle palpebre chiuse, le labbra secche si muovono al ritmo lento di quel respiro ansimante. Mi schiarisco la gola per farmi notare. Quando i suoi occhi con debole forza si aprono, trovo OcchiBlu: una giovane ragazza dai grandi occhi color zaffiro. Mi osserva. Solo allora mi accorgo che il viso è rigato dalle lacrime e che quel boccheggiare è la musica di un pianto muto e soffocato.
Improvvisamente una palla di pelo impaurita sfreccia tra le mie gambe fuori dalla stanza, lasciando di lei solo un mucchietto di deiezioni morbidamente deposti su un ammasso di vestiti abbandonati per terra.
Chiedo di restare sola con la mia paziente per poterla visitare adeguatamente, l’ombra alle mie spalle esita un po’,osserva la ragazza con uno sguardo freddo e quasi d’avvertimento, poi esce.
Subito mi metto al lavoro, apro la mia borsa, tiro fuori lo sfigmomanometro e mi avvicino a lei; le chiedo di sedersi e alzare un poco la camicetta: subito noto la pelle arrossata e piccoli graffi sparsi su tutta la superficie. Il battito è leggermente accelerato con qualche extrasistole, la pressione alta. E’ evidentemente agitata. Prendo l’otoscopio e inizio a capire di quale livello di otite si tratta.
Nulla. Nessuna infiammazione, nessun arrossamento, neanche un poco di cerume. Immobilizzata da quel pietrificante sguardo celeste, provo un terrore immenso e per un secondo prego di essere in un sogno.
“La prego Dottoressa, mi Aiuti!”
Quando conobbi OcchiBlu ero sicura di poterla aiutare; nel ventunesimo secolo nessuno muore per un’otite, anche se acuta. Tuttavia, ascoltando la sua storia, pensai solo alla morte: senza via di ritorno.
Aveva solo undici anni quando, per la prima volta, il Padre la penetrò con il dito medio, fece così male che le lacrime scesero spontaneamente, ma l’amore per un Genitore supera tutto! Anche un cetriolo o un manico di scopa; anche quella volta in cui, dopo aver bevuto un bicchierino di troppo, le infilò il cambio dell’auto nella vagina, sporcando di rosso tutto l’abitino nuovo.
OcchiBlu non parlava, si lasciava accarezzare, baciare, palpare, attraversare senza mostrare nessun emozione. Era forte lei, era un Diamante Grezzo.
D’altronde c’era già la Madre che tutti i giorni piangeva e urlava, una donna minuta e dolce che tutte le notti usciva ben vestita per lavorare e poterla mantenere. OcchiBlu amava sua Madre, più della sua stessa vita. Una volta prese coraggio e le raccontò che cosa facesse col Padre; le rivelò di quando fecero insieme quei video nudi, di com’erano fatti quei signorotti che le venivano presentati tutte le sere e con cui lei passava un po’ di tempo in camera sua. La Madre la guardò interdetta e quando finì il racconto le disse di non volerla mai più sentir menzionare fandonie del genere e, gridando di essere tremendamente delusa di lei, si chiuse in camera piangendo fino all’esaurimento.
OcchiBlu era forte, era orgogliosa, non aveva bisogno di raccontare a nessuno delle sue esperienze, neppure alla Madre!
Una mattina nebbiosa, i carabinieri circondarono la casa e arrestarono il Padre, la piccola soffrì tantissimo. Lui urlava disperato, dimenandosi come un matto nel tentativo di scappare. Lei lo osservava confusa, senza capacità di reagire, non riusciva a capire come mai lo portassero via, lei lo amava.
Quando poi, subito dopo, arrivarono dei signori che, con la forza, presero lei e suo fratello strappandoli via dalla Madre e li portarono in una prigione di bambini, provò ancor più dolore.
OcchiBlu non aveva nessuna intenzione di restare in quel luogo per molto tempo. Tutti i giorni litigava con qualcuno e spesso si picchiava con altre bambine; addirittura, una volta, tagliò i capelli a una ragazzina che l’aveva minacciata con un coltello.
Il giorno in cui finalmente la fecero uscire, non vide l’ora di abbracciare i suoi Genitori, ma, arrivata a casa, trovò solo la Madre con le valige strabordanti e pronte per andare a vivere in una nuova casa, con un padre nuovo.
OcchiBlu odiava il suo Patrigno. Era un Mostro! Tutte le notti si intrufolava nella sua stanza, si infilava nudo nel suo letto e con parole dolci le diceva che se solo avesse emesso un suono avrebbe ammazzato di botte suo fratello e la sua amata mamma. Le sfiorava delicatamente la bocca, gliela tappava con la sua corposa lingua e in silenzio godeva di quel corpo giovane e rigoglioso.
OcchiBlu era indistruttibile. Avrebbe fatto uscire suo Padre dalla galera e gli avrebbe riferito tutto quello che subiva dal Mostro. Gli avrebbe raccontato di quel glorioso giorno in cui, da vera coraggiosa, lo aveva spinto giù dalle scale pregando che morisse e, quando lo vide rialzarsi con solo qualche graffio in viso, gli sputò in faccia senza muovere ciglio; gli avrebbe raccontato che, subito dopo, lui le saltò addosso come un cane rabbioso, la sbatté per terra strappandole i vestiti e la penetrò con forza e severità, mentre lei, impassibile, lo fissava per dimostrargli di essere più forte. Avrebbe raccontato ogni cosa, fino all’ultima battaglia, anche se sarebbe stato molto difficile provare le colpe del Patrigno, implicato in storie di mafia . Sarebbero serviti plurimi testimoni di diversa natura e qualifica.
Lo stesso giorno, OcchiBlu, iniziò la sua ricerca: doveva trovare degli Angeli.
Solo ad altissime temperature un diamante può essere smerigliato.
Quando scappò di casa, divenne come una zingara: nomade nelle dimore altrui.
La notte andava nelle discoteche, nei pub, nei bar e mettendosi in mostra, agganciava con la sua arte da seduttrice ogni genere di uomo; lo incantava con i suoi grandi occhi color zaffiro, con il suo seno reso prosperoso da un push-up e con quel modo di fare un po’ stronzo e un po’ dolce. Poi gli regalava il suo corpo in un mix di godimento e orgasmi, in cambio di una casa e qualcosa da mangiare. Faceva così ogni volta che si trovava senza tetto, ogni volta che l’uomo numero 15, 16, 17 la mollava con ridicole scuse su facebook. Eppure, non solo gli uomini rimanevano incantati dalla sua Persona. Le donne infatti, si innamoravano di quel visetto simpatico e amichevole, di quella donnina sempre vestita bene che, quando si stava in compagnia, aveva sempre una buona parola per tutti e per tutti si faceva difensore. Tuttavia, anche le amiche presto si allontanavo, poiché l’ospite in casa, come un pesce, dopo un po’ puzza; soprattutto quando di notte si sveglia, preso da attacchi di panico, e inizia a urlare, chiedendo aiuto e invocando Dio.
Dopo qualche mese dalla sua fuga, OcchiBlu rimase incinta. Era stato il numero 23, il 24 o addirittura il 22. Non lo sapeva, e nessuno dei ragazzi le aveva risposto al messaggio dove annunciava la notizia. Intanto, un esserino minuscolo, giorno dopo giorno, stava crescendo in quella pancia che non sarebbe mai più stata così piatta.
Se non sei nata gitana, prima o poi la strada ti condurrà verso casa.
Quella notte OcchiBlu era tornata a casa, appesantita dall’orgoglio di chi non vuole darla vinta ma succube della pioggia che non le permetteva di dormire sulla panchina d’un parco. Aveva abbracciato la Madre che, subito dopo i primi momenti di estasi per il ritorno del figlio al prodigo, aveva iniziato ad andare su tutte le furie: come si era permessa di restare incinta!
Quando il Patrigno tornò a casa, era ormai il tramonto; trovandola in camera, non aspettò molto per sfogare il suo sesso dentro di lei e recuperare più volte tutto quel tempo perduto. Ma questa volta fu diverso, questa volta l’aveva penetrata troppo forte, il sangue era uscito e l’utero , era stato sfondato.
Non si sentirono mai così tante urla provenire da quella casa di Rovello, mai così tante da far allarmare i vicini che, insieme, citofonarono per chiedere notizie. Se avessero chiamato la polizia cosa sarebbe successo? Il Mostro doveva fare qualcosa.
“Chiamate la Guardia Medica” .
Sono le 5:47 di una mattina uggiosa di metà aprile, il sole restituisce colore alla campagna e a quella villetta che, per qualche ora, avevo pensato fosse l’inferno.
OcchiBlu si era addormentata stringendomi la mano come per supplicarmi di restare così, prima di andarmene via, le avevo lasciato il mio bigliettino da visita con in aggiunta scritto il numero di telefono di due psicoterapisti specializzati in casi border, che gestivano una comunità chiamata: “Angeli”.
Cos’altro potevo fare?
Un Diamante Grezzo può essere modellato solo ad altissime temperature o, da un altro Diamante.
Erano ormai passati quindici anni da quel fatidico incontro eppure tutte le volte che la notte mi trovavo a Rovello per curare qualcuno, mi compariva quell’immagine di verginità lacerata, quell’apparente assenza di Dio.
Una mattina in guardia medica, poco prima di finire il turno, una ragazzina si presenta in ambulatorio chiedendomi di aiutarla: era appena fuggita da una comunità dove aveva vissuto, da quando era nata, con la madre la quale era appena morta di HIV. Un po’ confusa, invito la ragazza ad andare a fare colazione in modo da poter parlare con più calma
Alessandra inizia il suo racconto con le lacrime agli occhi, mi narra di quando fece la sua prima festa di compleanno, di come la sua mamma le avesse cucito addosso il suo primo vestitino da cerimonia; mi racconta di come tutte le sere prima di dormire cantavano insieme le canzoni più belle del momento, dicevano una preghierina e si addormentavano abbracciate sotto la lucina dell’abatjour; mi espone quanto la sua mamma era forte e determinata, di come aveva combattuto per poter restare dentro quella comunità, di quanta sofferenza aveva passato e di come era diventata il capo sarto nella bottega dell’associazione.
Alla fine del racconto, confusa e frastornata, le chiedo come mai sia venuta a cercare proprio me, come avesse fatto a trovarmi, chi pensi che io sia, cosa possa fare per aiutarla e soprattutto come mai avesse così tanta necessità di raccontarmi di sua madre. Chi era?
“ La mia mamma era un Diamante grezzo e tu il suo Angelo. Sii anche il mio.”